venerdì 12 dicembre 2008

Eluana, frontiera del valore della vita umana


Si moltiplicano le manifestazioni e le iniziative a favore di Eluana Englaro, una ragazza come tante che i più non hanno evidentemente potuto conoscere personalmente.

A pensarci bene, se la si incontrasse per strada, Eluana potrebbe apparire, quale, in effetti, è, una persona a noi estranea, con la quale cosa possiamo dire di avere in comune?

Eppure, come Pier Giorgio Welbi e Terry Schiavo, il pensiero di Eluana suscita nel cuore di molti di noi una fortissima empatia per la persona e la storia.

Perché, a questo punto, Eluana rappresenta, anzi: è per noi il simbolo della frontiera di una visione del mondo e della storia oltre la quale si affacciano orizzonti bassi e tenebrosi, nei quali la vita umana è inevitabilmente relegata al rango di un qualsiasi bene di consumo, utile ed apprezzato per le utilità che rende.

Con quella di Eluana è a rischio anche la vita nostra e dei nostri figli.

Difendendo Eluana, difendiamo noi stessi ed il mondo di valori in cui crediamo.

Quando ci si sgancia, come pretendono di fare l’uomo e la scienza contemporanea, dall’intima razionalità che, pregna dell’impronta del Creatore, governa il mondo e la natura, stravolgendo il linguaggio ed il senso delle parole che la esprimono ed erigendo una malintesa scienza arbitro unico ed autoreferenziale del fine e del senso delle cose, come la storia recente dimostra, si aprono sul mondo i ferali boccaporti dell’inferno.

I cui abitanti vomitano su di noi i loro densi e necrotici effluvi.

sabato 15 novembre 2008

Epitaffio - breve racconto in memoria di Eluana Englaro, presto defunta


Agnese pedalava, quando una fitta dolorosa lasciò subito il posto ad una sensazione di euforia mentre bagliori luminosi le attraversavano la mente.
Le immagini delle cose del mondo si sovrapposero e confusero fino a divenire un tutto indistinto e svanire in una luminosità vieppù intensa ed avvolgente nella quale, alla fine, Agnese si sentì sprofondare dolcemente, con voluttà e gioia crescente.

Dallo spazio diafano e luminoso in cui sedeva, lo sguardo di Agnese contemplava il proprio corpo giacere esanime tra le bianche coltri che l’accoglievano ormai da più di dieci anni, secondo la misura del tempo in uso nella vita mortale.
Contemplava di lontano, alte sopra di sé, le schiere di eletti che le parevano irradiare una sensazione di felicità immensa in cui lei stessa si sentiva in qualche modo coinvolta e partecipe, e ne sentiva l’eco lontana dei canti.
Di fronte alla beatitudine in cui si sentiva immersa, per il ricordo del fango e delle miserie della sua vita mortale, per nulla al mondo avrebbe voluto riprendere possesso di quel suo povero corpo su cui ora vedeva, laggiù sulla terra, le persone prodigarsi incessantemente.
E con lo sguardo accarezzava amorevole la canizie del padre ricurvo.
Lontano, sotto di lei, la luce trasparente come cristallo si dissolveva però in ombre cupe, che si perdevano nel vortice tetro ed oscuro della voragine su cui stava sospesa.

Quella mattina Venanzio Assenzio si era svegliato di buon umore ed il sentimento di smisurata stima di sé che nutriva fu rafforzato dai riflessi luminosi che i tiepidi raggi di sole dell’autunno romano disegnavano sui vetri della finestra del suo studio in Piazza Cavour.
L’acuto stridio del barroccio e le grida di un arrotino lo richiamarono alla finestra, sulla quale i riflessi luminosi delle acque del Tevere ed il calore policromo delle foglie secche strenuamente aggrappate ai rami degli storici platani, o ammucchiate sul selciato, lo colsero e lo stupirono come il suono maestoso e inatteso di un’improvvisa sinfonia barocca.
Niente poteva più scalfire la tenacia e la determinazione con la quale si apprestava ad affrontare il collegio della prima sezione civile della Suprema Corte di Cassazione, di cui era, quella mattina, relatore.
Così si avviò, toga sotto braccio, il passo scandito dall’eco del tocco secco e sferzante dei tacchi sul pavimento, minuscolo e nero sotto l’alto soffitto dei corridoi deserti.

Il papà di Agnese aveva dormito male e stava adesso seduto in un angolo oscuro dell’immensa sala d’udienza, lo sguardo alla volta affrescata, e rincorreva distratto gli echi attutiti, nell’aria maleodorante di muffa, del dibattito in corso.
Esausto in cuor suo, cercava di cogliere dai lineamenti dell’avvocato i presagi della sentenza del cui dispositivo si sarebbe di li a poco data lettura.
Il campanello squillò; con un prolungato cigolio il massiccio portale della camera di consiglio si socchiuse e la Corte fece il suo ingresso in aula.
Inforcati gli occhiali, la Presidente sventolò ruvidamente qualche foglio, sbirciò sopra le lenti ed iniziò a leggere.

Non capì bene perché ciò successe, ma d’un tratto, forse un secolo, forse un secondo, Agnese si sentì più libera e leggera.
Ed indifferente, mentre vedeva uomini in abito grigio saldare alla fiamma i bordi della capsula metallica della bara nella quale i rimasugli ossuti di ciò lei era stata in vita venivano ora costretti.
La sensazione di sospensione e di gioia di prima spariva, risucchiata da una nuova e crescente pesantezza in cui sentiva con stupore crescere dentro di sé un forte dolore morale, un senso inconsolabile di rimpianto ed il desiderio struggente di abbracciare Colui nei riflessi ineffabili della cui Luce aveva visto avvolte le schiere dai cui canti si sentiva ora perdutamente, anche se solo per un tempo, strappare, contro il suo volere ed il suo desiderio.

Il papà di Agnese gettò un ultimo sguardo alla lapide ed alla foto della figlia più e più volte contemplata in questi lunghi anni.

Quindi percorse lentamente il viale del Verano ingombro di foglie.

E se ne allontanò, senza più voltarsi indietro.

domenica 12 ottobre 2008

Femminea




“Carissimo, lo Spirito dichiara apertamente che negli ultimi tempi alcuni si allontaneranno dalla fede, dando retta a spiriti menzogneri e a dottrine diaboliche, sedotti dall'ipocrisia di impostori, già bollati a fuoco nella loro coscienza. Costoro vieteranno il matrimonio, imporranno di astenersi da alcuni cibi che Dio ha creato per essere mangiati con rendimento di grazie dai fedeli e da quanti conoscono la verità” (Tim. 4, 1-5, 2).

Al TG1 del medesimo mercoledì 9 ottobre 2008, dal cui ufficio è tratto il passo della Sacra Scrittura sopra riportato, due servizi giornalistici: uno sul disegno di legge (sacrosanto per alcuni) che elimina la presunta discriminazione delle donne quanto alla attribuzione anche del cognome della madre ai figli; l’altro sulla vanità maschile che spopola quanto all’uso di profumi, fondotinta, lucidalabbra, cerette, e via dicendo.

Abitiamo una società sempre più femminea, che relega la salutare rudezza maschile e ciò che essa significa(va?) alle polveri grigie e grevi dei solai.

I maschi per primi, allevati nella prospettiva della auto-affermazione personale e della soddisfazione dei piaceri in famiglie fatherless o dove i padri, travolti dalla violenza della cultura femminista sessantottina, oggi divenuta cultura e costume popolare, hanno abdicato alle loro prerogative, e latitano; i maschi per primi, che non conoscono un Padre e la sua correzione, epperciò si trascinano nella vita snervati, deboli e rinunciatari, refrattari al combattimento ed alla lotta; i maschi per primi esigono una società materna che, escluso ed eliminato ogni rischio, prometta e garantisca loro la soddisfazione dei bisogni e l’appagamento dei piaceri.

Quali essi siano.

Ciò che determina una ideale regressione della società, sotto il segno snaturato dalla madre, e degli individui che la compongono ad uno stadio di sviluppo infantile, dove, come per i bambini, anche la sessualità si confonde nel magma di una personalità che stenta a formarsi e si perpetua nelle pulsioni egocentristiche ed edonistiche primigenie.

Persa la percezione e la consapevolezza della propria identità, in primis sessuale, e della propria vocazione, svanisce anche la comprensione dei fondamentali istituti della vita umana, a cominciare dal matrimonio e dalla famiglia, che dal secolo scorso gemono infatti sotto i colpi di un attacco senza precedenti nella storia.

Avviene come per i bimbi piccoli, per i quali il mondo è un tutto indistinto che si riassume nel volto della madre, del quale loro costituiscono il centro.

Il cerchio involuto dei rapporti del bimbo con la madre segna, sotto un cielo denso di nubi basse e plumbee, il cupo orizzonte dei nostri tempi, la cui speranza è che questa coltre possa d’improvviso rompersi per l’irrompere di un uomo. Di un padre.

Anzi, del Padre.

domenica 5 ottobre 2008

Il Festival del Diritto in ‘pubblico’ e in ‘privato’


Credo che gli aspetti più importanti del Festival del Diritto recentemente concluso a Piacenza siano, più che quelli ‘pubblici’ (sui quali, solo, si è voluta soffermare una parte dei media, diffondendosi in elogi sperticati ed incondizionati sull’evento e sulla sua organizzazione), quelli nascosti (o, per così dire, ‘privati’), ai quali, per quanto evidenti, alcuni, chiuso il Festival, non hanno più inteso dare peso, ritenendoli superati dal lustro che, al loro dire, dal Festival darebbe derivato alla nostra città.

Se si considera che nell’ambito del Festival del Diritto si è attuata una deliberata (e cioè dolosa, e non solo colposa, come da parte di alcuni si vorrebbe far credere) discriminazione a danno dei cattolici, strumentalizzandone nel contempo la presenza (peraltro sparuta e flebile) per spacciare l’evento come pluralista e partecipativo ed attuare, così, una vera e propria mistificazione a danno delle persone, c’è da chiedersi se la risonanza nazionale dell’evento basti a renderne la città fiera, o non sia, piuttosto, vero il contrario.

Soprattutto se, come credenti, si considera che, sui temi etici, la tribuna del Festival ha costituito la unilaterale cassa di risonanza del credo del fronte laicista, in molti casi nemico dichiarato della Chiesa, di cui (come si riferisce abbia fatto perfino qualche relatore ‘cattolico’ della kermesse) lamenta l’ingerenza, e della sua dottrina.

Il Festival ha proposto, in modo surretizio, un cumulativo ‘pacchetto’ culturale etico-giuridico ispirato e contraddistinto da un chiaro marchio ideologico, e ciò ne ha velato ed intristito ogni, anche autorevole, presenza ed aspetto.

Per una singolare coincidenza con il tema di queste poche righe, come annunciato dal Prof. Rodotà, la prossima edizione del Festival si occuperà di ‘pubblico e privato’.

Un Giano bifronte, due facce della stessa medaglia.

Temiamo le stesse che abbiamo già visto.

venerdì 3 ottobre 2008

Rodotà come Golia?


L'ex Garante della Privacy Prof. Stefano Rodotà: mente e portavoce del Golia del laicismo nel recente Festival del Diritto conclusosi a Piacenza?

lunedì 29 settembre 2008

Davide e Golia


“Davide disse a Saul: «Nessuno si perda d'animo a causa di costui. Il tuo servo andrà a combattere con questo Filisteo». Saul rispose a Davide: «Tu non puoi andare contro questo Filisteo a batterti con lui: tu sei un ragazzo e costui è uomo d'armi fin dalla sua giovinezza». Ma Davide disse a Saul: «Il tuo servo custodiva il gregge di suo padre e veniva talvolta un leone o un orso a portar via una pecora dal gregge. Allora lo inseguivo, lo abbattevo e strappavo la preda dalla sua bocca. Se si rivoltava contro di me, l'afferravo per le mascelle, l'abbattevo e lo uccidevo. Il tuo servo ha abbattuto il leone e l'orso. Codesto Filisteo non circonciso farà la stessa fine di quelli, perché ha insultato le schiere del Dio vivente». Davide aggiunse: «Il Signore che mi ha liberato dalle unghie del leone e dalle unghie dell'orso, mi libererà anche dalle mani di questo Filisteo». Saul rispose a Davide: «Ebbene và e il Signore sia con te». Saul rivestì Davide della sua armatura, gli mise in capo un elmo di bronzo e gli fece indossare la corazza. Poi Davide cinse la spada di lui sopra l'armatura, ma cercò invano di camminare, perché non aveva mai provato. Allora Davide disse a Saul: «Non posso camminare con tutto questo, perché non sono abituato». E Davide se ne liberò.
Poi prese in mano il suo bastone, si scelse cinque ciottoli lisci dal torrente e li pose nel suo sacco da pastore che gli serviva da bisaccia; prese ancora in mano la fionda e mosse verso il Filisteo.
Il Filisteo avanzava passo passo, avvicinandosi a Davide, mentre il suo scudiero lo precedeva. Il Filisteo scrutava Davide e, quando lo vide bene, ne ebbe disprezzo, perché era un ragazzo, fulvo di capelli e di bell'aspetto. Il Filisteo gridò verso Davide: «Sono io forse un cane, perché tu venga a me con un bastone?». E quel Filisteo maledisse Davide in nome dei suoi dei. Poi il Filisteo gridò a Davide: «Fatti avanti e darò le tue carni agli uccelli del cielo e alle bestie selvatiche». Davide rispose al Filisteo: «Tu vieni a me con la spada, con la lancia e con l'asta. Io vengo a te nel nome del Signore degli eserciti, Dio delle schiere d'Israele, che tu hai insultato. In questo stesso giorno, il Signore ti farà cadere nelle mie mani. Io ti abbatterò e staccherò la testa dal tuo corpo e getterò i cadaveri dell'esercito filisteo agli uccelli del cielo e alle bestie selvatiche; tutta la terra saprà che vi è un Dio in Israele. Tutta questa moltitudine saprà che il Signore non salva per mezzo della spada o della lancia, perché il Signore è arbitro della lotta e vi metterà certo nelle nostre mani». Appena il Filisteo si mosse avvicinandosi incontro a Davide, questi corse prontamente al luogo del combattimento incontro al Filisteo. Davide cacciò la mano nella bisaccia, ne trasse una pietra, la lanciò con la fionda e colpì il Filisteo in fronte. La pietra s'infisse nella fronte di lui che cadde con la faccia a terra. Così Davide ebbe il sopravvento sul Filisteo con la fionda e con la pietra e lo colpì e uccise, benché Davide non avesse spada. Davide fece un salto e fu sopra il Filisteo, prese la sua spada, la sguainò e lo uccise, poi con quella gli tagliò la testa. I Filistei videro che il loro eroe era morto e si diedero alla fuga”
(1 Sam., 17, 32 – 51).

Giù il sipario sul festival del laicismo

Non ho partecipato al Festival del Diritto che si è tenuto a Piacenza dal 25 al 28/9 scorsi, e quindi non posso esprimermi sugli specifici contenuti di ogni singolo focus.

Penso, tuttavia, che difficilmente il Festival avrebbe potuto essere una cosa diversa da quella che si preannunciava dal suo programma, nel quale si nota, in primo luogo, la totale assenza della posizione della cultura giuridica cattolica, evitando accuratamente ogni riferimento ai relativi contenuti, compreso il diritto naturale (se non per negarlo).

A giudicare dai resoconti giornalistici, in effetti, mi pare che, per esempio, nessuno abbia potuto spiegare al numeroso pubblico intervenuto il fondamento della concezione di famiglia quale società naturale fondata sul matrimonio, recepita dalla nostra costituzione; né il punto di vista dei cristiani sulle questioni del fine-vita legate al testamento biologico ed alla eutanasia, emergendo, al contrario, chiare indicazioni di senso opposto.

Oltre alle quanto meno opinabili opinioni della sociologa Saraceno in tema di ‘nuove famiglie’, basti pensare alla concezione di uomo e di natura umana che il quotidiano Libertà di oggi 29/9 attribuisce a Remo Bodei: “Non c’è più l’anima immortale. Si passa dall’eterno al caduco. Ciascuno di noi è ignoto a se stesso. Non riusciamo mai ad afferrare il centro della nostra identità”, nella quale, come credente, non mi ritrovo affatto, e che non è controbilanciata da visioni della vita e dell’uomo meno material-meccanicistiche.

Se il Festival fosse stato veramente aperto a tutte le posizioni e impostazioni culturali, in primis a quella cattolica che, mi pare, in Italia non sia propriamente minoritaria, penso a cosa, sugli scottanti temi etici, ci avrebbero potuto dire personalità del calibro, per esempio, tra i tanti che si potrebbero citare, di Francesco D’Agostino, di Mons. Elio Sgreccia o Mons. Rino Fisichella, o del Prof. Adriano Pessina.

Personaggi evidentemente ritenuti troppo rappresentativi, di cui si è quindi accuratamente voluto evitare la presenza.

Il messaggio del Festival, a giudicare dai resoconti giornalistici, pare quindi essere esattamente quello che si poteva prevedere: e cioè la promozione e la diffusione tra la gente, sostanzialmente a senso unico e senza reale contraddittorio, di una cultura giuridica (ma non solo) libertaria e laicista.

Una colossale operazione di marketing ‘culturale’, finalizzata a conquistare ed, evidentemente, orientare l’opinione pubblica, confondendola prima con la promessa di un evento pluralista e partecipativo, quale la kermesse piacentina curata dal Prof. Rodotà e dall'editore Laterza non è certamente stata; ed ammaliandola poi con una macchina organizzativa degna di quello che, una volta, era per antonomasia l’unico e vero Festival.

Quello, della canzone, di Sanremo.

mercoledì 24 settembre 2008

Perché non assisterò al Festival del Diritto

Credo che, forse, non assisterò ad alcun focus dell’imminente Festival del Diritto.

Principalmente per una improvvisa e verticale caduta d’interesse, alla quale non so –né voglio- reagire, che, pur non essendo mai stato tanto convinto (il nome di Rodotà essendo vago presagio del sopravvenire di dense nubi ideologiche sull’orizzonte della manifestazione) della bontà e genuinità del prodotto che ci si voleva propinare, ho subito avvertito quando al decantato spessore culturale dell’evento si è sostituita la cruda consapevolezza di cosa il Festival, in realtà, sia: una operazione culturale non trasparente ed ideologicamente orientata contro i valori cristiani e contro la Chiesa per far rivivere i propositi e le istanze etiche progressiste della passata legislatura.

Ho la presunzione di sapere cosa certi relatori verranno a dire, e, non sentendone il dovere, non ho nessuna voglia di ascoltarli, per rivivere turbolenze e ribollimenti interiori già gratamente tramontati con la caduta del governo Prodi, né di assistere e tantomeno sostenere tanto accaniti quanto inutili dibattiti.

Su certi valori credo non si possa discutere, né da destra né da sinistra.

Per cui: chi ha voglia, vada.

E se dalla nostra polemica, sgradevole ma pur necessaria, come è stato detto, scaturisse qualche buon frutto di … ‘conversione’, ben venga anche il Festival!

Ma dalle premesse pare lecito (e ragionevole) dubitarne.

lunedì 22 settembre 2008

I primi frutti del Festival


Tratto dal sito internet del Consiglio Nazionale del Notariato (http://www.notariato.it/), sezione “attualità”, nella parte dedicata alla partecipazione del notariato al Festival del Diritto di Piacenza (tema assegnato, il testamento biologico): “L’ordinamento riconosce oggi al malato il diritto a un consenso/dissenso pienamente e compiutamente informato. Il malato è arbitro e giudice del suo status: ha il diritto di accedere ai trattamenti terapeutici e di conoscerne scopo ed esito; ha il diritto di godere dei trattamenti di sostentamento vitale e, se cosciente, ha anche il diritto di rifiutarli”.

Fin qui, tutto sostanzialmente normale.

Ma poi l’autore della scheda retoricamente si chiede: “E il malato non capace? Quali diritti ha il malato terminale e quello non capace? Il suo fine-vita ha diritto alla dignità di umano o, proprio per il suo stato, ha perso ogni diritto di autodeterminarsi?”, dove la perdita del diritto di autodeterminarsi è contrapposta, come sua negazione, alla ‘dignità di umano’.

Se è così, secondo l'autore della scheda tutti coloro che sono, per esempio, in coma o in stato vegetativo permanente (e che, quindi, per tale ragione non sono evidentemente in grado di autodeterminarsi), non hanno più, per tutta la durata di tale stato, la ‘dignità di umano’.

Ergo (l’autore non lo scrive, ma ce lo suggerisce, ce lo lascia, con delicatezza, suggestivamente capire), per conservare la ‘dignità di umano’, soccorre evidentemente il testamento biologico, con il quale i soggetti dovrebbero poter disporre anticipatamente e liberamente della loro salute e dell’eventuale rifiuto delle cure.

Preferibilmente, anche in senso e con scopo eutanasico: è forse questo che, con espressioni tanto suadenti quanto efferate nella sostanza, ci si vorrebbe far garbatamente intendere?

A giudicare da queste brevi note tratte dal suo sito internet, l'Istituzione rappresentativa del notariato pare perfettamente allineata allo spirito (laicista) del Festival.

Un evento nel quale il responsabile scientifico Stefano Rodotà, salutando la sentenza di condanna a morte di Eluana Englaro come onorevole per chi l’ha pronunciata, può affermare che il diritto ‘non può divenire uno strumento autoritario per imporre valori non condivisi’.

Aspettando una spiegazione del significato di tale, invero oscura, espressione (alquanto strana, in bocca ad un giurista), constatiamo che il Festival del Diritto ha già prodotto i suoi primi frutti.


Avvelenati.

A proposito di Festival del Diritto


Nonostante che fosse stata loro spontaneamente sollecitata e richiesta dagli stessi organizzatori negli incontri ‘partecipativi’ tenuti nei mesi di maggio e giugno scorsi, la proposta dei giuristi cattolici piacentini di inserire nel programma del Festival del Diritto un intervento sul testamento biologico, o su altri temi attinenti la vita (proprio quelli che ispirano l’evento), del loro presidente nazionale Prof. Francesco D’Agostino non è stata evidentemente apprezzata ed è stata, con pretesti, respinta.

La nostra città ha così perso una importante occasione di incontrare una personalità di assoluto spessore a livello internazionale, e di ascoltarne la voce, unanimemente apprezzata e riconosciuta come espressiva ai massimi livelli della cultura filosofico - giuridica cattolica.

Per altro verso, i meccanismi ‘partecipativi’ attivati dal Comune di Piacenza si sono rivelati, perlomeno per quanto concerne i giuristi cattolici, una farsa.

Ma, a parte il fastidio di un lavoro inutile (e dell’inutile disturbo del Prof. D’Agostino, al quale, con l’occasione, Piacenza ha presentato un biglietto da visita forse un po’ sbiadito e sgualcito), lo strano (ed invero infelice) esordio evoca inevitabilmente il dubbio di che cosa il Festival realmente sia, o voglia essere.

Dubbio, tuttavia, immediatamente fugato dalla semplice lettura del programma definitivo del festival, presentato in questi giorni a Milano e consultabile sul sito internet del Comune.

Come la direzione scientifica affidata singolarmente al Prof. Rodotà (che sui temi etici è notoriamente schierato su posizioni ‘progressiste’) faceva, infatti, nello stesso tempo temere ed intendere, l’impostazione del Festival e le tesi di fondo che ivi si intendono svolgere e sostenere, agevolmente rintracciabili nel programma, paiono ricalcarne in modo puntuale gli orientamenti.

Domande ad effetto come: “Possiamo rifiutare le cure e morire dignitosamente? Può la regola giuridica sottrarre il governo della vita ai diretti interessati, sottrarsi alla loro libera volontà?”, per come sono formulate e per la qualità degli aggettivi usati, contengono infatti in sé le risposte, emotivamente conformi alle tendenze più libertarie ed individualistiche fino al capriccio delle moderne ideologie relativistiche.

Il programma riporta evidenti echi di non lontani dibattiti sui temi etici, p. es. in tema di fecondazione assistita, di famiglia e coppie di fatto, di eutanasia, laddove si legge che “cercando di rispondere a questo interrogativo scopriamo virtù e limiti del diritto, che non può divenire uno strumento autoritario per imporre valori non condivisi. Deve mettersi umilmente a disposizione di tutti, per consentire a ciascuno di sviluppare liberamente la propria personalità, come vuole l’art. 2 della Costituzione”.

Ma, ciò che anche colpisce, in diversi passaggi del programma risuona l’atteggiamento polemico ed insofferente della cultura laicista nei confronti della Chiesa, della quale la prima a più riprese ha contestato l’ingerenza (sovviene, in proposito, la posizione del Prof. Rodotà riguardo all’invito del Santo Padre alla università la Sapienza, ritenuto ‘inopportuno’).

Nell’occhiello del titolo dell’intervento di Chiara Saraceno previsto per venerdì 26/9 sul tema “le nuove famiglie”, dopo aver arbitrariamente dato per scontata la ormai acquisita pluralità dei modelli famigliari, si afferma, infatti, che ciò sarebbe avvenuto “non perché si è ampliata la conoscenza della ‘natura’, ma perché più soggetti sono entrati nella negoziazione di ciò che fa una famiglia, riducendo il potere dello Stato e delle Chiese”, dove il plurale “chiese” non riesce (né, forse, più di tanto vuole) camuffare il riferimento all’insegnamento della Chiesa Cattolica in tema di matrimonio e di famiglia e la censura di oscurantismo ed arretratezza che l’ideologia laicista, in proposito, le muove.

Giovedì 25, è prevista la proiezione “Le nuove famiglie: un cammino interrotto”, viaggio (che si profila nostalgico…), nella vicenda dei DICO a cura de L’A.T.OMO., cioè la Libera Associazione Tematiche Omosessuali di Piacenza che, scopriamo con sorpresa, ha potuto trovare (con altre associazioni locali) nel Festival quello spazio che è stato negato ai giuristi cattolici ed al Prof. D’Agostino, nonostante che quello stesso tema fosse già trattato da altri.

Tanta attenzione alle ‘nuove famiglie’, quindi, ma nessun intervento che riguardi la famiglia in senso tradizionale, quella tramandataci dalla tradizione cristiana, l’unica riconosciuta e regolata dalla Costituzione, in difesa ed a riguardo della quale nel programma del Festival non si spende neppure una parola.

Significativa, infine, è la concezione di uomo e di natura umana che si profila come oggetto e tema dell’intervento conclusivo del festival, affidato a Remo Bodei, “La costruzione dell’identità”.

In esso si afferma che l’identità individuale si costruisce su basi naturali e storiche, “verso un futuro ignoto … sullo sfondo della dimensione collettiva (da cui si riceve e a cui si dona senso) e nell’intreccio, spesso conflittuale, con sistemi di regole che siamo chiamati a condividere”.

Nonostante la presenza, tra gli organizzatori, della Università Cattolica e l’invocato aiuto (nella presentazione del Prof. Rodotà) anche dei teologi, non si trova nel programma neppure un accenno a Dio ed al Trascendente ed ai suoi riflessi sulle relazioni sociali, al diritto naturale, né, in tale prospettiva, al bene comune, in una concezione materialistica della vita e della dimensione umana che rispecchia fedelmente i dogmi e gli assiomi dell’odierno laicismo, di cui pare costituire il manifesto.

Questi il prologo ed il programma del festival, che, onestamente, dietro la parvenza di un confronto, assomiglia di più ad una operazione pubblicitaria e di promozione, sul piano culturale e giuridico, dei valori di una cultura libertaria e dei diritti individuali che, usando un termine corrente, possiamo definire ‘progressista’, contraria alla morale cristiana ed all’insegnamento della Chiesa sui valori non negoziabili (p. es. vita, famiglia, sessualità).

Il tutto, purtroppo, grazie alla deleteria complicità, a livello politico, di certo cattolicesimo ‘adulto’, che ci costringe a subire iniziative legislative, di cui non di rado è anche convinto fautore, per il riconoscimento delle coppie di fatto anche omosessuali; di favore al testamento biologico (la cui trattazione è delegata, nell’ambito del festival, al Consiglio Nazionale del Notariato, quasi che il problema fosse non in primo luogo morale ma solo di tecnica giuridica) in senso eutanasico; di riconoscimento della moltiplicazione dei generi e della libera scelta individuale della identità sessuale a prescindere dal dato naturale; dell’ammissibilità del ricorso libero alla fecondazione assistita e del diritto assoluto al figlio, ed al figlio sano; dove, come ha fatto il Prof. Rodotà, si accoglie la sentenza della Corte di Cassazione che autorizza l’uccisione di Eluana Englaro come la migliore possibile ed onorevole per la magistratura che l’ha pronunciata, e via discorrendo.

Dalle premesse, l’operazione culturale del Festival appare, quindi, non trasparente, pregna di messaggi più o meno nascosti, pilotati con cura ed in senso unidirezionale.

Per certi aspetti, sembra di assistere a certe trasmissioni televisive di parte, costruite ad arte, dove una parte degli invitati gioca, con linguaggio calcistico, fuori casa ed in un campo denso di trabocchetti e tranelli.

Come pare avvenire per i cattolici (quelli veri, non ‘adulti’) al Festival del Diritto.

Di questo crediamo sia bene essere avvisati, perché chi lo voglia possa partecipare all’evento con adeguato spirito critico.

domenica 15 giugno 2008

La ricetta delle trenette alle vongole veraci


Perdonatemi.

Ma voglio uscire con un pezzo auto-elogiativo in tema culinario, e confidarvi la mia ricetta delle trenette alle vongole veraci.

C’era un film dove la protagonista era una cuoca che, aiutata da un granchio-mago nascosto in un cesto tra le cose di cucina, confezionava piatti che gli ospiti ed avventori dei vari conviti gustavano commuovendosi fino alle lacrime in uno struggente incantesimo gastronomico nel quale o si innamoravano perdutamente o si riconciliavano e comunque si sentivano più buoni o davvero lo diventavano, pentendosi del male fatto e chiedendo perdono.
Quando cucino il pesce, mi pare succeda una cosa del genere. A me, perlomeno. Come mettere un piede in Paradiso.
E’ in questo senso che il pezzo è auto-elogiativo.

Ma andiamo con ordine.
Per prima cosa occorre avere un buon pescivendolo che vi dia vongole fresche e gustose oltre che, naturalmente, veraci.
Quelle che prendo io sono allevate in mare, se non ricordo male, vicino a Ravenna.
Per fare un piatto ricco ne occorrono circa tre etti a persona.
Le vongole vanno messe a spurgare per almeno due e non oltre le quattro ore, secondo le istruzioni di Simone (il mio fornitore di pesce), in poca acqua e coperte di sale grosso, che poi loro prendono quello che gli serve (sempre secondo Simone), oppure in abbondante acqua dove è stato preventivamente sciolta una consistente dose di sale (secondo la mia prassi forse un po’ grossolana, ma, mi pare, finora efficace e, comunque, consolidata).
Bisogna, poi, che, mentre spurgano, le vongole non stiano troppo strette.
In effetti anche noi quando andiamo in bagno abbiamo necessità ed apprezziamo molto una certa libertà, che ci rende ogni cosa più facile e gradita.
Compreso, magari, leggere qualche pagina dell’ultima rivista di scacchi o di apologetica.
Così le nostre vongole, anche se non è proprio vera acqua di mare –ché la differenza si sente- devono comunque sentirsi a loro agio e sufficientemente comode per tirar fuori le linguette a ventosa.
Io le piazzo in una grossa pignatta con su il coperchio e ogni tanto do un’occhiata per vedere cosa fanno.
E loro, dopo un po’, quando sono sicure che non c’è nessuno e che non corrono pericoli, sono lì con quelle cose molliccie fuori, ché, infatti, si chiamano anche molluschi ed a qualcuno potrebbero anche fare un po’ schifo, che fanno a loro agio le loro cose.
Non capisco se aspirano o buttano fuori, ma mi pare che faccia loro un gran piacere.
Come l’ultima sigaretta del condannato a morte.
Perché dopo l’acquisto e lo spurgo, inizia la fase tre.
Tragica, per le vongole.

Una cosa che apprezzo e ammiro molto in mia moglie è il senso della proporzione e della misura, anche se spesso ci porta a litigare perché al momento di mettere la pastasciutta in piatto si scopre che mio figlio Giacomo ha fame e ne vuole un po’ di più e così mia figlia Francesca e allora la mamma quasi non ne ha ed anche il mio piatto viene drasticamente decurtato.
Non parliamo di fare il bis.
L’ammirazione per il senso della misura di mia moglie mi viene regolarmente in mente quando pulisco e tagliuzzo l’aglio da unire al filo d’olio extra vergine d’oliva a bassa acidità e di prima premitura a freddo che, in una pentola professionale bassa di alluminio, costituisce il primo (e, a dire, tristemente, il vero, anche ultimo) letto in cui le nostre condannate a morte saranno distese con buon gioco fra di loro, così che non ne sia impedito l’arrendevole movimento di apertura delle valve che ne attesterà la fine.
Ne metto, infatti, di aglio, a macca, nel senso di un’esagerazione.
L’ideale, penso, sarebbero due o tre spicchi tagliati a pezzettini non troppo piccoli, in duo o in tre, diciamo, per poter essere in seguito agevolmente rimossi con la forchetta.
Beh, proseguendo oltre, verso le vongole (che, bruscamente prelevate dall’ammollo in cui si beavano e sottoposte al robusto getto d’acqua del rubinetto, hanno pensato bene, nel frattempo, di richiudersi) nella padella, sul filo d’olio con gli spicchi d’aglio, metto il coperchio e accendo la fiamma a fuoco moderato.
Punto il timer a dieci minuti, stappo il vino bianco delle colline di Vigolo Marchese (un Monterosso sincero, frizzante e leggero) e comincio a preparare quale altro pezzetto d’aglio, in crudele attesa che il destino dei malcapitati molluschi si compia, nel ristretto orizzonte della pur ampia padella professionale, spietatamente chiuso da un coperchio metallico (sempre alluminio professionale) senz’anima né compassione.

Qualche crepitio tradisce sommovimenti in atto nell’ormai nebuloso e surriscaldato spazio padellare.
Sollevo leggermente il coperchio e scorgo le prime valve generosamente aperte esibire, ormai indifesi, i loro tesori.
Richiudo. Aspetto il trillo del timer, che puntualmente arriva. Riapro.
E’ uno spettacolo vedere a distesa tante valve tutte uguali generosamente aperte come ali di farfalla bianche opalescenti e sulle stesse adagiati come fave sbiadite piccoli corpicini teneri e chiaro-giallognoli, ormai cadaverini per la –ahimé- ingenerosa delizia di palati fini e sepolcrali.

Un’altra generosa manciata di aglio a pezzi.
Ancora olio extra vergine (direi di non spilorciare) e un’abbondante spruzzata di vino bianco. Mezzo bicchiere comodo, direi.
Facoltativo: uno spicchietto di limone (uno solo e piccolo che sennò il tutto diventa amarognolo).
Ripunto il timer: altri dieci minuti, col coperchio appoggiato sul mestolo di legno di traverso al diametro della padella.
Ogni tanto rimesto, con soddisfazione e sovrapproduzione salivare: i gusci tintinnano argentini.

Altro trillo. Spengo il fuoco. Chiudo la padella con il coperchio.

Butto le trenette recuperate fortunosamente dalla signora Tagliaferri, ché all’ultimo momento ci siamo accorti di essere senza spaghetti, sennò la ricetta era: ‘spaghetti alle vongole veraci’, ma la signora Tagliaferri ci ha dato le trenette 112 della Voiello.

Guardo la confezione e punto il timer: cottura 8 minuti.

Intanto sguscio un po’ di vongole ed altre (non poche) le lascio per guarnire.

Raccolgo con la forchetta tutti i pezzi d’aglio che trovo, e li tolgo.

Il timer trilla. Assaggio: è ancora un po’ troppo al dente. Ancora un minuto. Scolo senza scuotere via troppo l’acqua di cottura.

Verso la pasta nella padella con le vongole, sotto la quale ho nel frattempo riacceso la fiamma, che ora ravvivo. Faccio saltare le trenette in padella ed asciugare un poco il sugo, ma non troppo.

Trito il prezzemolo fresco e lavato. Spruzzo il peperoncino in polvere (chi vuole faccia altrettanto, ma è buono anche senza. Mia moglie e i miei figli li vogliono senza).

Attenzione che sul fondo potrebbe rimanere qualche granello di sabbia. Se travasate il sugo dalla padella lo vedete sul fondo, e ve lo lasciate. Io non filtro mai niente. Qualche granello di sabbia mi è capitato di averlo tra i denti e di mandarlo giù, sopravvivendovi.

In piatto con le pinze da spaghetti.

In altre parole: far spurgare le vongole; versare in padella un filo d’olio con qualche spicchio d’aglio; mettere le vongole a fuoco moderato coperte finché non si aprono; aggiungere qualche spicchio d’aglio con olio e vino bianco; far cuocere a fuoco moderato ancora qualche minuto; nel frattempo lessare le trenette al dente; scolare e far saltare in padella a fiamma vivace; servire con prezzemolo tritato fresco e peperoncino a piacere.

Il resto me lo racconterete voi: buon appetito.

lunedì 2 giugno 2008

Trent'anni di legge 194 sull’aborto

Trent'anni or sono, in un momento buio della storia italiana, appena dieci giorni dopo l'assassinio di Aldo Moro, con il governo di solidarietà nazionale, presieduto da Giulio Andreotti, assediato da molteplici gravi emergenze, veniva approvata la legge 194, sull'aborto.L'opinione comune, inculcata da anni di malainformazione giornalistica ed istituzionale, era che la nuova legge, oltrecché espressione di un diritto delle donne, era anche necessaria per combattere l'aborto clandestino, di cui si fornivano cifre astronomiche, senza alcuna seria e plausibile giustificazione.
Che si trattasse di frottole parve inoppugnabile dal numero di aborti che si registrarono a partire dalla entrata in vigore della legge, di cui anzi è ragionevole presumere l'aumento rispetto al passato, stante l'effetto propulsivo che la legalizzazione di determinate condotte ha, di norma, sui comportamenti sociali.
Da allora, il fatto forse più grave, assieme allo sterminio di 5 milioni circa di bambini, è l'inculturazione nella società dell'aborto come diritto della donna e la progressiva aura di silenzio ed indifferenza morale da cui l'argomento è stato avvolto.
A distanza di trent'anni, sull'onda della moratoria che tanto ha tenuto banco nel recente dibattito civile e politico, crediamo legittima ed opportuna una riflessione, in primo luogo sulla identità del concepito, nel quale, in modo particolare dopo il referendum sulla legge 40 sulla fecondazione assistita, si riconosce sempre più, fin dal momento del concepimento, un essere umano portatore di un proprio forte ed autonomo diritto alla vita.
Ciò mette in ancor maggiore evidenza le contraddizioni di una legge, la 194, che alla vita umana nascente, in particolare nelle sue prime settimane, accorda scarsa attenzione e rilievo, sacrificandola a scelte materne spesso superficiali, non veramente libere né adeguatamente informate, e soprattutto non sostenute dal calore di quella autentica solidarietà che in tanti anni di attività hanno potuto esprimere i volontari dei centri di aiuto alla vita, che alla prova dei fatti si è dimostrata essere l'arma vincente sulla cultura di morte, derivata dagli eccessi violenti della ideologia femminista, di cui per anni la nostra società si è imbevuta.
Le prime a farne le spese sono state proprio le donne. Anzi: le madri, private dei loro figli di cui hanno disconosciuto il volto e, con dolore spesso inconsolabile e segreto, ora conservano lo struggente rimpianto.
Come ha recentemente affermato il Santo Padre, la legge 194 non ha risolto i problemi delle donne, ma ne ha creati altri, probabilmente più gravi.
Al di là di facili proclami, è, quindi, forse giunto il momento di mettersi, come si suol dire, una mano sulla coscienza, e, seriamente, di ripensarci.

venerdì 21 marzo 2008

Buona Pasqua!

"In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita" (Gv. 5, 24)



lunedì 17 marzo 2008

194: una legge gravemente ingiusta

(Tratto da RADICI CRISTIANE, n. 32, Febbraio/Marzo 2008)

Intervista a Mario Palmaro

Mario Palmaro è Presidente nazionale del Comitato Verità e Vita (www.comitatoveritaevita.it ). Scrive per il Timone e il Giornale. Filosofo del diritto e bioeticista, insegna all’Università Pontificia Regina Apostolorum e all’Università Europea di Roma. Il suo testo “Ma questo è un uomo” (San Paolo, 1995), giunto alla terza edizione, è considerato uno degli studi italiani più completi sul tema dell’aborto procurato. Per i tipi di SugarCo sta preparando un nuovo libro sull’aborto, che uscirà a maggio.


Professor Palmaro, come giudica quanto sta accadendo in questi giorni in Italia con il riaprirsi del dibattito sulla legge 194?

E’ un fatto molto positivo, perché significa che dopo trent’anni di aborto di Stato, la ferita aperta nel nostro Paese non si è ancora rimarginata. Chi sperava di mettere una pietra tombale sulle istanze dei nascituri, che non votano e non rilasciano interviste, dovrà rassegnarsi: ci sarà sempre qualcuno che non è disposto a conformarsi alla prassi e al senso comune. Ben venga un nuovo dibattito sulla legge 194. A patto però che sia una discussione seria. Che cioè si vada al cuore del problema, senza fermarsi alle solite questioni marginali che servono solo a far contenti gli ingenui e a lasciare le cose come stanno.

Sembra di capire che lei non condivida l'idea, diffusa anche in ambienti cattolici, che la 194 non sia poi una legge iniqua, ma solo una legge male applicata...

Mi batto contro la legalizzazione dell’aborto da quando avevo dieci anni, all’epoca in cui in Italia fu approvata la 194. Alle scuole medie facevamo discussioni in classe per convincere compagni e insegnanti che l’aborto non è un diritto ma un delitto. Esiste una “ortodossia” sull’aborto che trent’anni fa era affermata senza cedimenti da riviste e giornali cattolici, e che oggi dobbiamo difendere con i denti, perché c’è in giro molta confusione anche in alcuni ambienti cattolici tutt’altro che marginali. Prevale - quando va bene - una lettura teologico-morale del problema: l’aborto è un grave peccato, si dice. E’ vero. Ma poi si aggiunge: la legge 194 non è poi così male, anzi è necessaria per evitare l’aborto clandestino. E questa è, in termini filosofico-giuridici, un’eresia. E’ una tesi abortista. Basta la retta ragione per affermarlo.

Se poi si è cattolici…

Se si è cattolici, ci si vada a rileggere quanto Giovanni Paolo II scrive nella Evangelium vitae: il nostro compito non è solo quello – lodevole – di aiutare le donne con gravidanze difficili e distribuire pannolini. Dobbiamo innanzitutto denunciare pubblicamente che la legge 194 è gravemente ingiusta, e che ogni legalizzazione dell’aborto è inaccettabile. Una forma di opposizione che non deve mai essere messa fra parentesi, nemmeno per ragioni strategiche.

Che cosa risponde a coloro che parlano di “aspetti positivi della 194 ancora da applicare”?

La 194 non è una buona legge applicata male. Non c'è alcuna eterogenesi dei fini, ma al contrario la norma ottiene quello che vuole e che promette: e cioè, che la donna possa decidere in maniera arbitraria della vita del proprio figlio. E’ il principio di autodeterminazione della donna. Ora, è inutile una discussione sulla 194 che non contesti questo punto. I cosiddetti aspetti positivi della legge sono assolutamente marginali. E’ chiaro che si deve fare di tutto per salvare anche un solo bambino. L’importante, però, e che non si dia l’impressione di accettare la “cultura della scelta”, per cui si dà per assodato il monstrum giuridico che dà alla donna il potere di decidere della vita o della morte del nascituro.

Alcuni fanno notare che all’articolo 1 la legge parla di “tutela della vita fin dal suo inizio”…

Intanto, non si chiarisce quale sia questo inizio, cavalcando l’ambiguità del termine. E poi, siamo di fronte a un colpo di genio dell’abortismo umanitario: dichiarare un principio che nasconda il senso dell’intera legge sotto il mantello dell’ipocrisia. Sarebbe come se una legge che regolamenta la pena di morte recitasse all’inizio: lo stato tutela i diritti dei detenuti. Secondo qualche giurista, la 194 non conterrebbe un vero e proprio diritto di abortire per la donna. Lei è d’accordo?
Assolutamente no. A dispetto delle premesse, la legge 194 introduce nell'ordinamento un antiprincipio assai grave: il diritto di vita e di morte per la donna nei confronti di un altro essere umano innocente. Questo ius vitae ac necis è assegnato alla donna in maniera totale ed esclusiva, attraverso l'espediente della procedura, che trasforma un delitto in un atto medico pagato dai contribuenti.

Perché capita di ascoltare giudizi assolutori sulla 194 anche da studiosi di area cattolica?

L’effetto peggiore delle leggi ingiuste è che con il passare degli anni si autolegittimano. Dopo trent’anni la 194 fa meno impressione, molti cominciano a metabolizzarla. Eppure questa legge ha fatto quasi 5 milioni di vittime innocenti, ha trasformato l’aborto in una questione esclusivamente femminile, ha escluso il padre dalla decisione. La 194 introduce l’aborto eugenetico, discriminando i concepiti ammalati. L'aborto viene escluso soltanto qualora il feto sia in grado di sopravvivere fuori dal corpo della donna. Non esiste alcun apparato sanzionatorio, ad eccezione dei casi di aborto colposo o contro la volontà della donna. Insomma: questa legge è un vero disastro. Altro che parti positive.

Alcuni, anche nell’ambito dei pro life italiani, propongono di rinunciare all’idea che l’aborto debba essere punito. Che cosa ne pensa?

E’ un grave errore, un sorprendente non-senso tecnico giuridico. Il diritto ha un unico linguaggio: stabilire precetti e divieti, e presidiarli con una sanzione. Che potrà anche non essere il carcere, quando ragioni di umanità suggeriscono il ricorso a misure alternative. Ma la pietà non può fare velo alla necessità di tutelare un bene giuridico fondamentale come quello della vita umana. L’infanticidio è, ad esempio, un delitto che mette insieme una colpa oggettivamente gravissima e una condizione spesso fragilissima della madre colpevole. Eppure, nessuno ha proposto – almeno per ora – di depenalizzare questo reato. Ora, non è possibile tutelare la vita del concepito senza l’arma della minaccia sanzionatoria, pur nelle forme e nei modi più compatibili con la natura di questo delitto. Ricordiamoci che l’abortismo si è affermato proprio rivendicano la depenalizzazione.

Si dice che una certa duttilità sui principi sia necessaria, perché oggi non è possibile abrogare o anche solo cambiare la legge 194. Lei che cosa risponde?

Sono più che mai convinto che oggi in Italia non esistano le condizioni per modificare anche di poco la 194. C’è una spaventosa mentalità abortista diffusa, che richiederà decenni di lavoro per essere capovolta. Dopo il referendum del 2005 sulla fecondazione artificiale, qualcuno ha parlato di “vittoria” della cultura della vita: un pauroso abbaglio. C’è però un elemento incoraggiante: le nuove generazioni sono meno ideologizzate dei loro nonni e dei loro genitori. E che cosa possiamo fare per questi ragazzi? Non certo annacquare la verità, per renderla più digeribile. Non certo dire che “la 194 è una buona legge”. Ma dire loro con forza che questa è una legge gravemente ingiusta.

Cosa risponde a quanti dicono che, con una simile posizione intransigente, si ostacolano cambiamenti positivi della legge 194 o della sua applicazione?

Che è una tesi assurda. I radicali si battono da quarant’anni per avere il massimo, e così ottengono almeno il minimo. E non si fermano mai. Solo se teniamo alta la posizione di bandiera possiamo esercitare sulla politica – che è luogo di mediazione – una benefica spinta verso la giusta direzione, anche a piccoli passi. Non mi spaventa morire in un mondo in cui ci sia ancora la legge 194. Mi spaventa morire in un mondo in cui più nessuno dice che la 194 è una legge gravemente ingiusta. Non mi spaventa morire in un mondo in cui gli abortisti sono la stragrande maggioranza. Mi spaventa morire in un mondo in cui tutti, anche gli antiaboristi, ragionano e parlano da abortisti.

martedì 4 marzo 2008

Aborto: siamo sicuri che non fa proprio così male?


Secondo l’Elliot Institute for Social Sciences, il 90% delle donne che ha abortito soffre di danni psichici nella stima di sé; il 50% inizia o aumenta il consumo di bevande alcoliche e/o quello di droga; il 60% è soggetto a idee di suicidio; il 28% ammette di aver persino provato fisicamente suicidarsi; il 20% soffre gravemente di sintomi di tipo stress post-traumatico; il 50% soffre dello stesso in modo meno grave; il 52% soffre di risentimento e persino di odio verso quelle persone che le hanno spinte a compiere l'aborto.
Il professor David Fergusson, ricercatore della Christchurch School of Medicine in Nuova Zelanda, svolgendo uno studio in cui voleva dimostrare che l'aborto non comporta alcuna conseguenza psicologica, ha scoperto che le donne che hanno avuto un'aborto hanno una probabilità 1,5 volte superiore di sviluppare malattie mentali, e due o tre superiore di diventare tossicodipendenti o di fare abuso di alcol.
Secondo l’Archives of Women’s Mental Health, nel 2001, le donne che hanno abortito risultano aver sviluppato in maggior misura reazioni di aggiustamento, psicosi depressive e disturbi neurologici e bipolari. Anche il rischio di depressione o psicosi post parto per le nascite desiderate è maggiore per le donne che avevano precedentemente abortito. Secondo il British Medical Journal del 19/1/2002 per una media di otto anni successivi all'aborto le donne sposate hanno dimostrato una propensione a cadere in depressione clinica del 138% superiore rispetto alle corrispondenti donne che avevano portato avanti la loro gravidanza indesiderata.
Secondo il prestigioso Journal of the National Cancer Institute (n. 1/2/1995), "l'aborto è un fattore di rischio per il cancro al seno: la probabilità di contrarre un tumore della mammella è del 50% maggiore per le donne che ne hanno subito uno".
Non è farina del mio sacco.
Sono solo alcuni passaggi del saggio della psicoterapeuta, nonché Presidente del Movimento per la Vita di Ravenna, D.ssa Cinzia Baccaglini, pubblicato in calce al recente libro di Francesco Agnoli "Storia dell'aborto" (edizioni Fede e Cultura), di cui si consiglia la lettura.
E’ caduto il muro di Berlino; dopo averne sbandierato l'innocuità e rivendicato il libero uso, sulla Cannabis l’Indipendent ha fatto un clamoroso passo indietro: “Cannabis: An apology - In 1997, this newspaper launched a campaign to decriminalise the drug. If only we had known then what we can reveal today...”; come, da ultimo, leggiamo anche nella bellissima enciclica di Benedetto XVI, Spe salvi, pure le ideologie (dell’Illuminismo, dell'800 e del secolo scorso, marxismo in testa) hanno fallito nel loro fine di procurare la felicità l'uomo, e rivelato i loro inganni.
Non si pretende che alla verità di quanto ho scritto sopra si aderisca subito ed acriticamente.
Ma, se sugli intangibili dogmi ed assiomi finora da qualcuno sbandierati sul concepito e sull'aborto e su quello che esso significhi per la donna; per l'uomo (come padre); per i figli; per i medici; per l'intera società, pensiamo di avere delle certezze, ecco, forse è il caso di fermarci un attimo a riflettere.
A riconsiderare il problema, disponibili a dire: forse ci siamo sbagliati.
Questo è il senso della moratoria sull'aborto.
Una battaglia non contro le persone, neppure contro le femministe della prima ora e più sfegatate.
Ma sulle idee, e, laicamente, per una antropologia.
Mi si perdoni se, qualche volta, ricorro ad immagini forti.
Ma, senza voler emulare il ‘Teatro della crudeltà’ di Antonin Artaud, credo che questo alle volte serva per scuotere coscienze intorpidite, prigioniere di effimeri slogan ed adagiate nella sonnolenta ed acritica adesione alla mentalità corrente.
Per favore, non nascondiamoci dietro i muri di facili proclami e di rigorose chiusure, ma (ri)pensiamoci.
Ed aiutiamo le donne (anzi: le mamme, perché tali sono dal momento del concepimento, e per sempre) in difficoltà a non temere la Vita.


(L'immagine è tratta dal sito internet http://www.fuoridallombra.it/)

mercoledì 27 febbraio 2008

L'agonia


'L'agonia psicologica e spirituale conseguente all'aborto viene soffocata dalla società, ignorata dai mezzi di comunicazione, rifiutata dagli psicologi e disprezzata dai movimenti femminili. Il trauma post-aborto è una malattia grave e devastante che non dispone di portavoci celebri, che non è oggetto di film, né di programmi televisivi o talk show (Forbidden Grief: The Unspoken Pain of Abortion, Theresa Burke - David C. Reardon)' (Cinzia Baccaglini, 'Il non riconoscimento del volto umano del concepito: quali conseguenze?', in F. Agnoli, Storia dell'Aborto, Fede & Cultura, 2008).

Una culla per la vita

Non è dato sapere se ciò risponda a dati reali (sarebbe interessante verificarlo), ma si dice che a Piacenza non nascano quasi più bambini malati.
Muoiono tutti prima del parto, abortiti dalle loro madri, alla prima diagnosi di possibili malattie o malformazioni fetali.
Ed è anche per la diffusione degli aborti che il 19 aprile 2007 Benedetto XVI ha approvato il documento elaborato dalla Commissione Teologica Internazionale su “La Speranza di salvezza per i bimbi che muoiono senza essere stati battezzati”, per cui, smentita l’esistenza del Limbo, si è affermata la speranza di salvezza anche di queste creature.
Le Aziende Sanitarie Locali sono quindi diventate il nostro moderno Monte Taigete, dalle cui cime nell’antichità di Sparta si gettavano i neonati malformati, azione oggi metaforicamente possibile, in tutta liceità, per i dettami ipocriti di una legge dello Stato, la n. 194 del 1978.
Sono tante, infatti, le ragioni, relative sia al testo della legge, sia alla sua applicazione pratica, come avviene nella prassi dei consultori, con le quali si potrebbe dimostrare che questa legge è, in realtà, un traballante paravento che tenta malamente di nascondere, dietro la facciata della tutela della pur preziosa salute della donna, una sbrigativa mentalità abortista, che con la stessa non ha proprio nulla da spartire.
Ma, nel momento in cui la moratoria sull’aborto lanciata da Giuliano Ferrara dalle pagine de Il Foglio sta finalmente travolgendo, come un fiume in piena, la impenetrabile barriera di silenzio che, dal momento della sua approvazione ed entrata in vigore, ha sempre accompagnato la (unilaterale e distorta) applicazione di questa legge, ipocrita pure nella sua titolazione, non è questa la sede per esporle.
Tuttavia, non si può fare a meno di osservare che la vigente legislazione sulla eufemisticamente chiamata “interruzione volontaria della gravidanza” sembra incarnare ed esprimere l’incomprensione di sé e della propria vocazione, oltre ad una vera e propria avversione alla maternità, alla quale molte donne del nostro secolo sono state, purtroppo, spinte dalla adesione a visioni della vita ed a modelli culturali fortemente condizionati dai falsi miti delle ideologie correnti.
Sperimentando, qui sì, la propria solitudine.
Diversamente non si spiega perché le donne e le madri in difficoltà non debbano lasciarsi aiutare e non accettino di dare alla luce i propri figli, affidandoli, poi, per esempio, alla pietà del prossimo, in vista della futura adozione.
Forse non è abbastanza risaputo che è possibile farlo in modo anonimo, come accuratamente spiega il sito internet dell’Azienda Unità Sanitaria Locale di Piacenza, in forza di numerose e rassicuranti norme di legge (art. 250 cod. civ.; art. 9 legge 798/27; art. 2 legge 127/97; Art. 31, comma 2, Cost.; art. 11 legge 184/83).
Oppure, più romanticamente, ricorrendo alla “ruota degli esposti”, pietoso istituto dei tempi che furono, ma anche dei nostri.
Viene da chiedersi se sia più grave, per una madre, il rimorso di averlo esposto, ma con la consapevolezza di saperlo vivo ed affidato, o il ricordo di avere ucciso, soppresso, eliminato, dite un po’ come volete, il proprio figlio nel proprio grembo, per quante giustificazioni vi si possano trovare ed addurre.
Di questi tempi, abbiamo bisogno di segni, anche piccoli, che ci aiutino, come ci esorta Benedetto XVI, a sperare.
L’ultima “ruota”, nella nostra Città, è stata installata un anno fa, su iniziativa di Don Angelo Bertolotti e con il contributo del Llyons Club S. Antonino, con l’allora Presidente Avv. Angelo Perini, presso il Centro Manfredini di Via Beati, 56/A.
Un piccolo segno.
Una iniziativa che oggi, con il dibattito in corso sulla legge 194, si carica di significati simbolici.
Perché, se chiedete a Don Angelo, la “Culla per la vita” (così si chiama la moderna ruota di Via Beati), non è, fino ad oggi, mai stata usata.
Da nessuno.Per l’appunto.

Il matrimonio usa-e-getta

La Seconda Commissione Giustizia della Camera ha approvato il testo base, predisposto dal Senatore Brutti, del disegno di legge in tema di riduzione, ad un anno, dei tempi di divorzio, e per l’abolizione dell’addebito nelle separazioni, introducendo, anche, nuovi automatismi successori a favore dei coniugi separati, prima dipendenti dalla declaratoria di eventuali responsabilità del fallimento coniugale.
Lo spirito dichiarato delle nuove norme in discussione, almeno per quelle relative all’abolizione dell’addebito, è quello di togliere dai procedimenti di separazione elementi di conflittualità che, nella prassi, sono non di rado pretestuosamente introdotti dai coniugi per motivi di rivalsa o con intenti più prosaicamente speculativi.
E che questo avvenga, nella prassi dei tribunali, è senz’altro, tristemente, vero.
Ma l’addebito della separazione, per quanto sgradevole e malamente strumentalizzato nell’ambito dei procedimenti di separazione, costituisce comunque, in qualche modo, presidio dell’osservanza, da parte dei coniugi, dei doveri coniugali di fedeltà, coabitazione, assistenza morale e materiale, da loro solennemente assunti con il patto matrimoniale.
Nelle nuove norme proposte, invece, venuta meno questa garanzia, il diritto di ciascun coniuge di ricevere un assegno per il proprio mantenimento dipenderà dalla mera ed asettica valutazione dei rispettivi redditi.
Così potrà accadere che il coniuge offeso e tradito sia anche iniquamente gravato dell’obbligo di mantenimento dell’altro.
In pari tempo si vorrebbe che il tempo occorrente per ottenere il divorzio dopo la prima udienza, detta presidenziale, nel procedimento di separazione, sia, dai tre attuali, ridotto ad un anno.
Aldilà dei proclami e delle buone intenzioni che possano animare i senatori proponenti (i cui pensieri paiono tuttavia ideologicamente orientati), si assiste ora al tentativo degli stessi di banalizzare e ‘sterilizzare’ il contenzioso matrimoniale, imbavagliandone i protagonisti e riducendone gli adempimenti a mere e sbrigative formalità.
Il tutto con norme che introducono nel nostro ordinamento una specie di matrimonio usa-e-getta, con doveri affievoliti e privi di sanzione per il caso di loro inosservanza, che ne accentuerà i casi di dissoluzione in modo esponenziale, come testimonia l’esperienza della vicina Spagna.
La famiglia si presenta, quindi, di questi tempi, nei suoi tratti generali, sconvolta e tradita da un uomo spesso rinunciatario alle proprie prerogative di marito e di padre; da una donna che si nega alla maternità e reclama il diritto di uccidere i propri figli nel proprio grembo; da figli privati di una vera educazione ed abbandonati a sé stessi nella ricerca dei valori fondamentali della vita; da un legislatore che, dopo averla smembrata nelle separazioni e nei divorzi, vuole ora svuotarla di forza e di contenuti legittimando le unioni di fatto; riconoscendo e valorizzando i rapporti omosessuali; privandola finanche del nome che ne ha, fino ad ora, contraddistinto l’intima unità; cercando, da ultimo, di sminuire l’importanza dei doveri matrimoniali e sancendo brevi termini per la dissoluzione del matrimonio su cui la stessa si fonda.
Un quadro sconfortante che attesta inequivocabilmente la durezza dell’attacco, in odio all’uomo, in corso ai danni della cellula fondamentale e primigenia nella quale si forma la persona.
L’incapacità di comprendere il bene della famiglia e della società che il legislatore, così facendo, dimostra, pare voler travolgere ciò che di buono ancora custodisce la tradizione, con profonde radici cristiane, del nostro popolo, generando sofferenze e disorientamento nei coniugi, nei figli, nella società.
Ma siamo certi che la famiglia resisterà, grazie all’impegno di tanti laici intellettualmente onesti ed all’esempio di tante famiglie a cui le nuove generazioni potranno guardare fiduciose, traendone le ragioni di una vera Speranza.
E questo è l’auspicio con il quale, nonostante tutto, vogliamo inaugurare, per la famiglia, il nuovo anno 2008.

La legge 194 sull'aborto: un falso mito da sfatare.

E’ stato tutto un levar di scudi ed uno stracciar di vesti, degno delle migliori commedie all’italiana ed evocante l’immagine di strillanti e prezzolate prefiche di riti funebri antichi e moderni.
Ma cosa avrà mai detto di così esplosivo, scandaloso od eversivo il Prof. Franco Colombo, stimato ed apprezzato primario del Reparto Ginecologia dell’ospedale cittadino, nella intervista a Libertà del 16 febbraio scorso, che ha suscitato le reazioni scandalizzate delle moderne suffragette, improbabili paladine di un femminismo retrivo e stantio, retaggio di tempi che furono, se non riferire, da operatore attento e preparato, la realtà applicativa della legge 194 sulla cosiddetta IVG (leggasi ‘interruzione volontaria della gravidanza)?
Una realtà che, come si suol dire, sanno anche i bambini.
Soprattutto quelli che, come si potrebbe aggiungere con tristemente macabra facezia, proprio grazie alla legge 194 non hanno potuto vedere la luce.
Fuor di metafora, l’applicazione della legge 194 è, infatti, una vera e propria mattanza, che richiama, mi si scusi la crudezza evocativa, quella delle tonnare siciliane d’un tempo, le "camere della morte" dove, per una singolare analogia, i tonni arrivavano a trovare la morte nella stagione dell'accoppiamento.
In campo abortivo, la cosiddetta autodeterminazione della donna è rivendicata dalle moderne epigone di Kate Millet e Shulamith Firestone né più né meno come il diritto, che vorrebbero sacrosanto, di accettare o meno, a proprio insindacabile arbitrio, come se fosse un qualsiasi fatto privato, la gravidanza e la vita dell’esserino che gli si và formando in seno.
Nient’altro che la fedele applicazione del noto (e trucido) slogan degli anni 60.
‘L’utero è mio, e lo gestisco io’.
Al diavolo la salute della donna e, ancor più, quella dell’inerme ed indifesa creatura che porta in seno, inutili pastoie dialettiche utili solo a far passare la legge tra i bigotti (e, a dir poco, disattenti) cattolici, ed a confondere l’opinione pubblica.
Quello che, solo, conta è l’affermazione rigida, tutta ideologica ed intoccabile come un dogma (che, così come è articolato, è solo un aberrante delirio), che alla donna deve essere riservato il diritto di decidere della vita e della morte del feto, ridotto ad uno stupido ed insignificante grumo di cellulette.
Ciò a dispetto della ragione, e delle stravolgenti prospettive dischiuse dai moderni metodi di indagine diagnostica per immagini (le banali ecografie!) che ce lo hanno fatto vedere, annidato nel grembo materno, muoversi, vivo e vitale, spaventato al cospetto della ventosa meccanica che lo vuole risucchiare; che ci hanno mostrato una creatura che percepisce le voci ed i suoni; che soffre il dolore; che vive le angosce ed i turbamenti della madre.
E’ per questo che la legge 194, una legge ipocrita, che nella ambigua formulazione di alcuni articoli si presta e pone le premesse per l’applicazione distorta ed unilaterale, in senso mortifero, che se ne è fatta e tuttora disinvoltamente se ne fa, con lo scandaloso placet dello Stato, è brandita dalle moderne ideologhe della mostruosa ed intoccabile sovranità della donna, come spada perennemente lorda di sangue, che continua a perpetrare il penoso, erodiano eccidio di innocenti che ogni giorno si consuma sotto i nostri occhi.
Le ASL sono, quindi, come turpi rupi tarpee, come orridi monti Taigete dalla cui cima questa irreale e deturpata immagine di donna continua, a suo arbitrio, a divorare e distruggere i suoi stessi figli, sfracellandoli, con il dono della vita e della speranza che essi racchiudono e ci offrono, sulle rocce ciniche di una insensibile ed inflessibile ideologia.
Con sofferenze profonde che si trascinano nel tempo ben oltre la consumazione del fatto, a partire dalle attese davanti alle squallide pareti dei consultori.
Che il certificato fosse una barzelletta lo sapevamo già, da tempo.
Non c’era certo bisogno che ce lo dicesse, con assoluta ed oggettiva onestà, il primario di un qualsiasi reparto ginecologico degli ospedali italiani; un medico operante nel pieno rispetto della normativa vigente, e che si avvale, anche, dei diritti e della facoltà ivi previste, compresa quella di fare obiezione di coscienza, al quale và tutta la nostra stima e solidarietà.
Oppure, da medici, bisogna essere necessariamente abortisti ed omicidi?
Perché tale è la parola esatta per qualificare l’aborto.
Forse non formalmente, nel senso tecnico-giuridico di cui alle norme vigenti, come, cavillando sui termini e sulle parole, si è di recente ritenuto di dover far notare.
Ma lo è certamente nel suo senso sostanziale, di soppressione di una vita umana, quale (piaccia o no) è anche quella del concepito.
Dalle reazioni all’intervista del Prof. Colombo trapela tutto il dispotismo e l’intolleranza della ideologia, che a chi si permette di pensarla diversamente riserva, quando va bene, l’emarginazione e, qualche volta, il linciaggio morale o mediatico (in tema di omosessualità, si veda il recente caso dello psichiatra cattolico Tonino Cantelmi).
Opponendovisi, poi, con luoghi comuni e vecchi slogan, che sono triti e ritriti stereotipi del femminismo sessantottino, maleodorante di naftalina, che, se avevano una ragion d’essere ed un terreno fertile nell’euforia rivoluzionaria di quei tempi, oggi, alla luce della ragione ed anche della evoluzione delle conoscenze mediche, non possono più reggere.
Non è vero, infatti, come ci si vorrebbe far credere, ed è tutt’altro che dimostrato, che la legge 194 abbia abbassato il numero degli aborti.
Fatto che, se avviene, è probabilmente dovuto ad altre dinamiche.
Per avvalorare una tale tesi si gioca sui numeri, esagerati ed inattendibili, degli aborti clandestini ante ’78 e sulla vergognosa propaganda che se ne è fatta.
Ma, oltre a ciò, smentiscono l’attendibilità di tale tesi la crescita dell’età in cui si cerca un figlio e la sempre maggior infertilità delle coppie; l’incidenza del ricorso alla pillola abortiva, la RU486; l’aumento della contraccezione; la derubricazione a raschiamento e ad aborto spontaneo di interventi a tutti gli effetti abortivi; la denatalità ed il tasso di abortività (costante quando non in crescita) ad esso significativamente correlato; l’ignoranza dell’odierno trend degli aborti clandestini che l’’aborto legale’ può avere sì, in parte, ridotto, ma simmetricamente incentivatone il ricorso in generale e per aborti eugenetici e selettivi.
A ciò si aggiunga l’attività pro-life del volontariato dei Centri per la Vita e di altri.
La legge 194, pertanto, non può essere definita una buona legge, tanto meno alla stregua di presunti, ed indimostrati, buoni esiti della stessa.
E’, anzi, questo, un falso mito da sfatare.
Si vorrebbe, infine, che il tema della vita e della moratoria sull’aborto rimanessero fuori dal dibattito elettorale e non strumentalizzato.
Come, invece, contraddittoriamente fanno proprio le stesse amministratrici che lo invocano, intervenendo sul tema, dopo la pubblicazione dell’intervista del Prof. Colombo, con qualche buon proposito sulla prevenzione, che và incoraggiata, ma anche con una serie di banalità, luoghi comuni e veri e propri errori.
Per esempio la citazione dei fatti di Napoli, notizia che si è rivelata essere una clamorosa montatura, poi ritrattata dagli stessi quotidiani che l’avevano diffusa: parafrasando Shakespeare, tanto clamore, anche nelle successive manifestazioni di piazza, per nulla.
Ma come? Il dibattito sulla vita nascente è tra i più interessanti e coinvolgenti che la società civile ha finalmente affrontato negli ultimi trent’anni, la gente si aspetta di sapere come la pensano, sul punto, i politici che si appresta (ahimé) ad eleggere il 13 e 14 aprile, e di sapere che cosa gli stessi intendano fare su questi temi, ed il tutto dovrebbe essere rimosso e revocato nel silenzio?
Sì, nel silenzio.
Lo stesso a cui si vorrebbe utopicamente ridurre, con le sue pene ed i suoi rimorsi, la coscienza delle donne che da questa società sono state lasciate sole e, di fatto, sbrigativamente costrette ad abortire, non aiutate né sostenute in scelte e prospettive diverse.
Magari perché è stato fatto loro mancare quel minimo di fiducia e di sicurezza di cui avevano bisogno, che so, sulla possibilità di avere poi i soldi per sostenere le spese dell’asilo e per i pannolini.
Al tavolo che si vorrebbe convocare sulla applicazione della legge 194, si tenga, per favore, conto anche di questo.
Si parli, per favore, con verità, della aberrazione della pillola abortiva, della famigerata RU486.
Si invitino i rappresentanti dei farmacisti, e si operi affinché possano avvalersi, anche loro, dell’obiezione di coscienza.
Respingiamo con forza la farisaica consegna del silenzio alla quale una certa politica, di destra o di sinistra che sia, ipocrita, infingarda, opportunista, attenta più alle dinamiche di voto che non ai temi veri della vita, ci vorrebbe relegare.
In una parola, svegliamoci e diamoci da fare.
Non si può, davvero, più tacere, perché della vita di questi innocenti siamo anche tutti noi sempre più responsabili.