giovedì 12 febbraio 2015

Le Mariage pour Tous


Si chiama con un altro nome, ma quello all’esame della Seconda Commissione Giustizia del Senato della Repubblica è il vero mariage pour tous. In tutto e per tutto il matrimonio omosessuale, introdotto – se verrà approvata la legge – con il nome di unione civile.
Con buona pace delle Sentinelle in Piedi, della Manif pour Tous e di quanto si affannano nella difesa della famiglia naturale, arroccati dietro la illusione di un istituto, fino ad ora conosciuto come matrimonio, che formalmente continua ad avere una sua previsione e disciplina nel codice civile, ma che, se passa questa nuova legge, sarà completamente svuotato di significato e di contenuto. Prima di tutto sul piano simbolico e del significato, ciò che è l’aspetto più importante dal punto di vista sociale e del costume.
Il tutto senza nemmeno più la necessità del trampolino di lancio della legge sulla omofobia, il cosiddetto disegno di legge Scalfarotto, superato abilmente da questo nuovo disegno di legge, che si può trovare e leggere semplicemente digitando su Google “DDL S-14”. Sul piano culturale, ci battiamo per difendere un albero (matrimonio e famiglia), e non ci accorgiamo che ne sono state recise le radici.
Con il DDL su le mariage pour tous, come ci piace definire il disegno di legge sulle unioni civili, due persone, anche dello stesso sesso, che vogliano stabilire tra loro una comunione di vita materiale e spirituale, possono finalmente farlo iscrivendosi ad un apposito registro, istituito per legge, dopo di che acquisiranno uno status in tutto e per tutto equiparato, per legge, a quello di coniuge.
Per iscriversi al registro, tuttavia, devono sussistere alcuni presupposti e condizioni, quali non essere (entro certo limiti) parenti, non essere già sposati od appartenenti ad altra unione civile registrata, ed altre condizioni che, esplicitamente, sono pari pari riprese con rinvio alle norme del codice civile in tema di impedimenti al matrimonio.
Il membro della unione civile è equiparato al coniuge in tutto, compresi diritti successori e la possibilità di adozione e di affidamento di figli minori.
Con l’approvazione di questo disegno di legge, le mariage pour tous sarà quindi una realtà anche nel nostro paese. Resta, invero, l’handicap del nome (matrimonio fa un altro effetto, i membri della unione civile come si possono definire: unionisti? Unioncivilisti? Civil partners?), ma è presumibile che anche questo aspetto sarà presto o tardi superato.
Nelle sue dinamiche sorgive, così bene descritte dallo sguardo penetrante del grande antropologo Claude Levi-Strauss, dal divieto dell’incesto deriva che l’uomo e la donna sono ‘forniti’ da famiglie necessariamente diverse tra le quali, in conseguenza della loro unione, si stabiliscono legami, rapporti ed alleanze socialmente rilevanti, tutte incentrate sul nucleo indefettibile della generatività della famiglia così costituita. Da essa, dai legami di consanguineità e da quelli, di parentela ed affinità, che da essa derivano, si ordinano i rapporti sociali e tra le generazioni. Il matrimonio, esogamico e monogamico, è il rito che, nelle sue varie possibili forme, suggella questo patto nuziale, che non può non avere rilievo pubblico.
Ogni nuova forma para-famigliare che consista nella instaurazione di una comunione di vita tra i coniugi (e, nelle civil partnerships, tra i soggetti a loro assimilati) è, per assonanza, inevitabilmente imitativa di queste dinamiche primigenie.
E, se nel caso delle unioni civili eterosessuali, con l’istituzione del registro delle unioni civili abbiamo l’introduzione, con altro nome, di una nuova forma, grezza e rudimentale, di matrimonio, nel caso delle unioni tra persone dello stesso sesso questo meccanismo imitativo implica e provoca inevitabilmente il cedimento (spesso inconsapevole), prima di tutto lessicale e semantico (cioè sul piano simbolico), di un fondamento antropologico fondamentale che stava alla base del matrimonio e della famiglia: la generazione dei figli e l’ordine delle generazioni. Se, cioè, si ammette che il matrimonio, nella sua nuova forma (chiamata, provvisoriamente, unione civile), sia accessibile anche alle persone dello stesso sesso, in una unione, quindi, per sua natura sterile, si cede anche, sul piano logico, ad un radicale mutamento del significato delle dinamiche e dei termini legati alla maternità, alla paternità, alla responsabilità genitoriale, accettando che anche coppie per loro natura sterili come le coppie omosessuali debbano potere, nella logica imitativa del matrimonio e della famiglia, avere figli. Come? Con l’adozione, le fecondazione eterologa, la produzione in vitro, la cosiddetta gestazione di sostegno (leggasi utero in affitto), e quindi nel traffico e nella mercificazione degli esseri umani.
Accolto il principio (e il disegno di legge sulle unioni civili inequivocabilmente lo accoglie), le conseguenze, un po’ per volta, verranno, e già nelle sentenze di vari tribunali se ne registrano le prime avvisaglie, con l’adozione e l’affidamento di minori a coppie omosessuali. Con buona pace del principio per cui l’orientamento sessuale delle persone, al pari dell’affetto, dell’amicizia, della buona o cattiva educazione, per la loro estrema soggettività ed inafferrabilità, non sono e non devono essere rilevanti per il diritto. Ma il dilagante relativismo ideologico ha ormai privato questo argomento, l’abbiccì per i giuristi, di ogni spessore e consistenza, con abdicazione – su questo fondamentale punto - del diritto e delle leggi alla propria funzione ed alla esigenza di certezza dei rapporti giuridici.
Un importante fenomeno che la legge sulle unioni civili, se approvata, produrrà con riferimento alle unioni eterosessuali, è la introduzione, come detto, di una nuova forma, più grezza e rudimentale, di matrimonio, l’iscrizione, per l’appunto, nel registro delle unioni civili. Ma quali effetti produrrà l’appartenenza ad una unione civile sugli status parentali? E cioè, a parte l’acquisizione, da parte dei membri della unione civile, di uno status in tutto e per tutto assimilato a quello di coniuge, che ne sarà di fratelli e sorelle, genitori e parenti vari dei partners, che nel matrimonio sono, rispettivamente, cognati e cognate, suoceri, affiliati in vario grado dei coniugi? E, in mancanza di un regime di parentela e di affinità che scaturisca dalla unione civile, come sarà, per i figli delle civil partnerships, il regime degli impedimenti per le unioni civili che questi ultimi volessero contrarre? Nel disegno di legge non è precisato. Quel che è certo è che l’idea stessa di matrimonio, quale continua, come un reperto quasi archeologico, ad essere disciplinato dal codice civile, ne risulterà svuotata di senso dall’interno, depotenziata, resa insignificante o, comunque, meno pregnante ed attrattiva, sancendo, con il suo fallimento, il tramonto definitivo del matrimonio civile, introdotto e modellato da Napoleone sulla scorta del diritto canonico. Aiutato, in questo, dalla martellante giurisprudenza della Cassazione, secondo la quale (in presenza di un matrimonio ‘tradizionale’, civile o concordatario) per separarsi basta volerlo, anche solo per una soggettiva disaffezione, senza che occorra una causa seria ed oggettiva che renda la convivenza intollerabile. Basta, alla fine, cambiare idea. Anche se sono nati figli, anche se uno dei coniugi ha in buona fede confidato nella indissolubilità del vincolo, anche se il coniuge incolpevole viene cacciato di casa, privato del rapporto con i figli, costretto a pagarne il mantenimento e messo – di sovente - in povertà (cosa che accade per lo più ai padri).
Per la Cassazione, quindi (non senza errori e imbarazzanti contraddizioni), siamo tornati al diritto romano classico, dove il matrimonio, privo di riti con effetti normativi, derivava dal semplice fatto della convivenza ispirata da un atteggiamento soggettivo della volizione che veniva chiamato l’affectio maritalis. Venuta meno quella, la donna (ai nostri giorni anche l’uomo) poteva essere liberamente rispedita a casa, dai suoi. E quello era il divorzio.
Finalmente, si può ancora osservare che l’introduzione di un nuovo modello generale di unione, sullo stile imitativo del matrimonio, da cui ha origine la famiglia, nella sua più labile e rudimentale disciplina, opera un impoverimento del linguaggio, un affievolimento – su tale piano - del valore simbolico del matrimonio e della famiglia e, di conseguenza, della potente funzione unitiva e di riconoscimento, in tali istituzioni, di una vasta parte della società.
D’altro canto, se è vero che lo stile imitativo della famiglia generativa caratterizza la natura e la disciplina di ogni unione che coinvolga l’unione materiale e spirituale dei relativi membri, l’assimilazione allargata alle unioni tra persone dello stesso sesso implica l’accettazione, sul piano simbolico e della possibilità giuridica, del principio che anche ai membri delle stesse debba essere riconosciuto il diritto di esplicare, in qualche modo, l’aspirazione alla genitorialità, necessariamente scivolando su un cambiamento radicale del modo di concepirla.
E ciò pone un problema. Delle due l’una, o l’assimilazione a matrimonio e famiglia delle unioni tra persone dello stesso sesso è incostituzionale, oppure dobbiamo accettare l’idea che le dinamiche procreative ben possano essere surrogate dalla tecnologia e dalla legge. Allargando il discorso, si può ritenere che l’imitazione della famiglia attuata mediante le unioni ‘para-famigliari’ eterosessuali ben potrebbe (e legittimamente, anche se con leggi di discutibile corrispondenza all’ordine sociale ed al bene comune) corrispondere ad un modello liquido, per così dire, di matrimonio, quale era nel diritto romano classico. La tutela di tali unioni sarebbe rimessa ad interventi giurisprudenziali, fondati sul mero accertamento dello stato di fatto della convivenza more uxorio, ricadente a pieno titolo nell’ambito degli artt. 2 ed anche 29 della Costituzione, considerando tali unioni quali formazioni sociali di tipo famigliare, solo caratterizzate da una diversa ritualità matrimoniale, all’interno delle quali si esplica la personalità degli individui. Non altrettanto, però – se non si accetta l’idea di genitorialità e di filiazione che dovrebbe agire nelle coppie dello stesso sesso -, si potrebbe dire (come invece fa la Cassazione) per queste ultime. Le unioni tra persone dello stesso, cioè, non potrebbero godere della tutela di cui all’art. 2 della Costituzione perché il riconoscimento del carattere imitativo della famiglia naturale che le contraddistingue implicherebbe un inammissibile snaturamento del rapporto di genitorialità e di filiazione che necessariamente dovrebbe discendere da tale loro natura. In tal senso, l’unica norma che dovrebbe disciplinare il fenomeno familiare, esclusivamente su base matrimoniale monogamica ed eterosessuale, dovrebbe essere l’art. 29 della Costituzione.
Il deragliamento, ormai in atto nella nostra società, da questi principi, porta ad uno svuotamento di senso degli istituti basilari e fondativi della coesione sociale, quali sono matrimonio e famiglia, ad un appannamento dei valori, ad un depotenziamento dei simboli identificativi dell’unità della famiglia, alla confusione o alla perdita dei ruoli parentali ed al conseguente indebolimento dei rapporti sociali e dei vincoli di solidarietà tra le persone; alla incoerenza e nebulosità del sistema normativo, alla relativizzazione dei valori ed al pluralismo interpretativo; al sacrificio della certezza del diritto, affidato in gran parte alla tecnica pretoria (cioè alla logica delle sentenze); alla confusione ed allo smarrimento dei singoli, alla loro solitudine, alla frammentazione sociale, alla mistificazione linguistica ed alla conseguente incapacità di comunicare; all’aumento delle solitudini, delle nevrosi e delle depressioni, in una parola, al caos sociale ed alla infelicità delle persone.
Ecco, questo crediamo sia lo stravolgimento antropologico in atto nella nostra società, sul quale riflettere.

Piacenza, 12 febbraio 2015.

Livio Podrecca

Presidente UGCI Piacenza