domenica 15 giugno 2008

La ricetta delle trenette alle vongole veraci


Perdonatemi.

Ma voglio uscire con un pezzo auto-elogiativo in tema culinario, e confidarvi la mia ricetta delle trenette alle vongole veraci.

C’era un film dove la protagonista era una cuoca che, aiutata da un granchio-mago nascosto in un cesto tra le cose di cucina, confezionava piatti che gli ospiti ed avventori dei vari conviti gustavano commuovendosi fino alle lacrime in uno struggente incantesimo gastronomico nel quale o si innamoravano perdutamente o si riconciliavano e comunque si sentivano più buoni o davvero lo diventavano, pentendosi del male fatto e chiedendo perdono.
Quando cucino il pesce, mi pare succeda una cosa del genere. A me, perlomeno. Come mettere un piede in Paradiso.
E’ in questo senso che il pezzo è auto-elogiativo.

Ma andiamo con ordine.
Per prima cosa occorre avere un buon pescivendolo che vi dia vongole fresche e gustose oltre che, naturalmente, veraci.
Quelle che prendo io sono allevate in mare, se non ricordo male, vicino a Ravenna.
Per fare un piatto ricco ne occorrono circa tre etti a persona.
Le vongole vanno messe a spurgare per almeno due e non oltre le quattro ore, secondo le istruzioni di Simone (il mio fornitore di pesce), in poca acqua e coperte di sale grosso, che poi loro prendono quello che gli serve (sempre secondo Simone), oppure in abbondante acqua dove è stato preventivamente sciolta una consistente dose di sale (secondo la mia prassi forse un po’ grossolana, ma, mi pare, finora efficace e, comunque, consolidata).
Bisogna, poi, che, mentre spurgano, le vongole non stiano troppo strette.
In effetti anche noi quando andiamo in bagno abbiamo necessità ed apprezziamo molto una certa libertà, che ci rende ogni cosa più facile e gradita.
Compreso, magari, leggere qualche pagina dell’ultima rivista di scacchi o di apologetica.
Così le nostre vongole, anche se non è proprio vera acqua di mare –ché la differenza si sente- devono comunque sentirsi a loro agio e sufficientemente comode per tirar fuori le linguette a ventosa.
Io le piazzo in una grossa pignatta con su il coperchio e ogni tanto do un’occhiata per vedere cosa fanno.
E loro, dopo un po’, quando sono sicure che non c’è nessuno e che non corrono pericoli, sono lì con quelle cose molliccie fuori, ché, infatti, si chiamano anche molluschi ed a qualcuno potrebbero anche fare un po’ schifo, che fanno a loro agio le loro cose.
Non capisco se aspirano o buttano fuori, ma mi pare che faccia loro un gran piacere.
Come l’ultima sigaretta del condannato a morte.
Perché dopo l’acquisto e lo spurgo, inizia la fase tre.
Tragica, per le vongole.

Una cosa che apprezzo e ammiro molto in mia moglie è il senso della proporzione e della misura, anche se spesso ci porta a litigare perché al momento di mettere la pastasciutta in piatto si scopre che mio figlio Giacomo ha fame e ne vuole un po’ di più e così mia figlia Francesca e allora la mamma quasi non ne ha ed anche il mio piatto viene drasticamente decurtato.
Non parliamo di fare il bis.
L’ammirazione per il senso della misura di mia moglie mi viene regolarmente in mente quando pulisco e tagliuzzo l’aglio da unire al filo d’olio extra vergine d’oliva a bassa acidità e di prima premitura a freddo che, in una pentola professionale bassa di alluminio, costituisce il primo (e, a dire, tristemente, il vero, anche ultimo) letto in cui le nostre condannate a morte saranno distese con buon gioco fra di loro, così che non ne sia impedito l’arrendevole movimento di apertura delle valve che ne attesterà la fine.
Ne metto, infatti, di aglio, a macca, nel senso di un’esagerazione.
L’ideale, penso, sarebbero due o tre spicchi tagliati a pezzettini non troppo piccoli, in duo o in tre, diciamo, per poter essere in seguito agevolmente rimossi con la forchetta.
Beh, proseguendo oltre, verso le vongole (che, bruscamente prelevate dall’ammollo in cui si beavano e sottoposte al robusto getto d’acqua del rubinetto, hanno pensato bene, nel frattempo, di richiudersi) nella padella, sul filo d’olio con gli spicchi d’aglio, metto il coperchio e accendo la fiamma a fuoco moderato.
Punto il timer a dieci minuti, stappo il vino bianco delle colline di Vigolo Marchese (un Monterosso sincero, frizzante e leggero) e comincio a preparare quale altro pezzetto d’aglio, in crudele attesa che il destino dei malcapitati molluschi si compia, nel ristretto orizzonte della pur ampia padella professionale, spietatamente chiuso da un coperchio metallico (sempre alluminio professionale) senz’anima né compassione.

Qualche crepitio tradisce sommovimenti in atto nell’ormai nebuloso e surriscaldato spazio padellare.
Sollevo leggermente il coperchio e scorgo le prime valve generosamente aperte esibire, ormai indifesi, i loro tesori.
Richiudo. Aspetto il trillo del timer, che puntualmente arriva. Riapro.
E’ uno spettacolo vedere a distesa tante valve tutte uguali generosamente aperte come ali di farfalla bianche opalescenti e sulle stesse adagiati come fave sbiadite piccoli corpicini teneri e chiaro-giallognoli, ormai cadaverini per la –ahimé- ingenerosa delizia di palati fini e sepolcrali.

Un’altra generosa manciata di aglio a pezzi.
Ancora olio extra vergine (direi di non spilorciare) e un’abbondante spruzzata di vino bianco. Mezzo bicchiere comodo, direi.
Facoltativo: uno spicchietto di limone (uno solo e piccolo che sennò il tutto diventa amarognolo).
Ripunto il timer: altri dieci minuti, col coperchio appoggiato sul mestolo di legno di traverso al diametro della padella.
Ogni tanto rimesto, con soddisfazione e sovrapproduzione salivare: i gusci tintinnano argentini.

Altro trillo. Spengo il fuoco. Chiudo la padella con il coperchio.

Butto le trenette recuperate fortunosamente dalla signora Tagliaferri, ché all’ultimo momento ci siamo accorti di essere senza spaghetti, sennò la ricetta era: ‘spaghetti alle vongole veraci’, ma la signora Tagliaferri ci ha dato le trenette 112 della Voiello.

Guardo la confezione e punto il timer: cottura 8 minuti.

Intanto sguscio un po’ di vongole ed altre (non poche) le lascio per guarnire.

Raccolgo con la forchetta tutti i pezzi d’aglio che trovo, e li tolgo.

Il timer trilla. Assaggio: è ancora un po’ troppo al dente. Ancora un minuto. Scolo senza scuotere via troppo l’acqua di cottura.

Verso la pasta nella padella con le vongole, sotto la quale ho nel frattempo riacceso la fiamma, che ora ravvivo. Faccio saltare le trenette in padella ed asciugare un poco il sugo, ma non troppo.

Trito il prezzemolo fresco e lavato. Spruzzo il peperoncino in polvere (chi vuole faccia altrettanto, ma è buono anche senza. Mia moglie e i miei figli li vogliono senza).

Attenzione che sul fondo potrebbe rimanere qualche granello di sabbia. Se travasate il sugo dalla padella lo vedete sul fondo, e ve lo lasciate. Io non filtro mai niente. Qualche granello di sabbia mi è capitato di averlo tra i denti e di mandarlo giù, sopravvivendovi.

In piatto con le pinze da spaghetti.

In altre parole: far spurgare le vongole; versare in padella un filo d’olio con qualche spicchio d’aglio; mettere le vongole a fuoco moderato coperte finché non si aprono; aggiungere qualche spicchio d’aglio con olio e vino bianco; far cuocere a fuoco moderato ancora qualche minuto; nel frattempo lessare le trenette al dente; scolare e far saltare in padella a fiamma vivace; servire con prezzemolo tritato fresco e peperoncino a piacere.

Il resto me lo racconterete voi: buon appetito.

lunedì 2 giugno 2008

Trent'anni di legge 194 sull’aborto

Trent'anni or sono, in un momento buio della storia italiana, appena dieci giorni dopo l'assassinio di Aldo Moro, con il governo di solidarietà nazionale, presieduto da Giulio Andreotti, assediato da molteplici gravi emergenze, veniva approvata la legge 194, sull'aborto.L'opinione comune, inculcata da anni di malainformazione giornalistica ed istituzionale, era che la nuova legge, oltrecché espressione di un diritto delle donne, era anche necessaria per combattere l'aborto clandestino, di cui si fornivano cifre astronomiche, senza alcuna seria e plausibile giustificazione.
Che si trattasse di frottole parve inoppugnabile dal numero di aborti che si registrarono a partire dalla entrata in vigore della legge, di cui anzi è ragionevole presumere l'aumento rispetto al passato, stante l'effetto propulsivo che la legalizzazione di determinate condotte ha, di norma, sui comportamenti sociali.
Da allora, il fatto forse più grave, assieme allo sterminio di 5 milioni circa di bambini, è l'inculturazione nella società dell'aborto come diritto della donna e la progressiva aura di silenzio ed indifferenza morale da cui l'argomento è stato avvolto.
A distanza di trent'anni, sull'onda della moratoria che tanto ha tenuto banco nel recente dibattito civile e politico, crediamo legittima ed opportuna una riflessione, in primo luogo sulla identità del concepito, nel quale, in modo particolare dopo il referendum sulla legge 40 sulla fecondazione assistita, si riconosce sempre più, fin dal momento del concepimento, un essere umano portatore di un proprio forte ed autonomo diritto alla vita.
Ciò mette in ancor maggiore evidenza le contraddizioni di una legge, la 194, che alla vita umana nascente, in particolare nelle sue prime settimane, accorda scarsa attenzione e rilievo, sacrificandola a scelte materne spesso superficiali, non veramente libere né adeguatamente informate, e soprattutto non sostenute dal calore di quella autentica solidarietà che in tanti anni di attività hanno potuto esprimere i volontari dei centri di aiuto alla vita, che alla prova dei fatti si è dimostrata essere l'arma vincente sulla cultura di morte, derivata dagli eccessi violenti della ideologia femminista, di cui per anni la nostra società si è imbevuta.
Le prime a farne le spese sono state proprio le donne. Anzi: le madri, private dei loro figli di cui hanno disconosciuto il volto e, con dolore spesso inconsolabile e segreto, ora conservano lo struggente rimpianto.
Come ha recentemente affermato il Santo Padre, la legge 194 non ha risolto i problemi delle donne, ma ne ha creati altri, probabilmente più gravi.
Al di là di facili proclami, è, quindi, forse giunto il momento di mettersi, come si suol dire, una mano sulla coscienza, e, seriamente, di ripensarci.