domenica 11 gennaio 2009

Lettera ad Annalena Benini


Cara Annalena,

i suoi articoli su Rachida Dati (Il Foglio 9 e 10/1/09) sembrano una cavalcata delle Valchirie, una bora gelida e impetuosa che, con botti e fragore di vetri infranti, irrompe in ogni stanza spalancando finestre, sbattendo porte e sconvolgendo ogni cosa.

A parte l’ammirazione per il suo talento giornalistico, mi chiedo, però, che senso abbia, oggi, una tale, orgogliosa, revanche in stile e piglio post femminista.

Buttarla sulla competizione uomo – donna pare, infatti, cosa un tantino stantìa e, alla lunga, anche autolesionista.

Ferma la libertà di ciascuno, uomo o donna che sia, di decidere del proprio futuro e della propria vita, siamo proprio sicuri che nel cuore di ogni donna il carrierismo ed il lavoro a tutti i costi prevalgano sulla vocazione alla famiglia, alla maternità ed al lavoro domestico, come paiono significare i vuoti vacanti di agognate ed improbabili quote rosa?

E una donna che prende il posto che una volta era dell’uomo non rischia di generare, in famiglia, un mostro a due teste?

Credo che ogni donna dovrebbe permettere all’uomo di assolvere al ruolo che la natura gli assegna e, in un certo senso, dovrebbe pretenderlo.

Ma, forse, il problema è proprio che, come latitano i padri, così non ci sono più uomini.

Per quanto tempestoso, il vento, infatti, prima o poi si acquieta e le stanze restano lì, fredde, vuote e sconvolte.

Per uomini e donne viene quindi la sera.

Ci si guarda indietro e ci si chiede: perché?

Con stima.

La paura della società post-moderna: di essere solidale


Se, uscendo di casa, mi imbattessi nel mio vicino nell’atto di togliersi la vita, credo che farei di tutto per impedirglielo, anche con la forza, presumo, ed anche se, in quel momento, avessi la perfetta consapevolezza di andare contro la attuale volontà del tentato suicida.

Compirei, quindi, una violenza per la quale mi chiedo se io sarei meritevole di pena.

Se, da medico, mi trovassi invece nella necessità di eseguire trasfusioni di sangue ad un paziente che, avendone vitale ed urgente necessità, tuttavia le rifiutasse per le proprie convinzioni religiose, sarei, del pari, punibile se, nonostante il dissenso del paziente, magari espresso in chiare ed inequivoche dichiarazioni anticipate di trattamento (cioè nel suo, cosiddetto, “testamento biologico”), procedessi ugualmente in scienza e coscienza all’esecuzione della terapia, salvandogli così la vita?

Ciascuno può dare la sua risposta, confrontandola poi con quella del nostro ordinamento giuridico.

Che alla prima domanda dovrebbe, verosimilmente, rispondere di no, che per i reati a cui potrebbe corrispondere la mia condotta non sono punibile, avendo agito in stato di necessità e, in parole povere, per salvare la vita del mio vicino.

Alla seconda domanda è invece la Corte di Cassazione ad avere, di recente, risposto no, invero arrampicandosi un po’ sui vetri.

I giudici della Suprema Corte, infatti, hanno argomentato la loro decisione sulla base di una non attualità del dissenso del testimone di Geova (tale era, infatti, il paziente in questione), espresso quando non vi era alcun pericolo di vita, sicché, secondo i giudici, doveva presumersi che il malato avrebbe cambiato opinione e prestato il consenso se fosse stato realmente consapevole del rischio del sacrificio della vita che effettivamente correva.

Una finzione, quindi, un espediente dialettico (come quello, di segno opposto, utilizzato dai giudici del caso Englaro) per aggirare l’intricato nodo del consenso informato e della vincolatività, per il medico, delle dichiarazione anticipate di trattamento, sulle quali l’asse trasversale laicista - radicale, sfruttando la dolorosa vicenda degli Englaro, dopo il caso Welby, ha di recente sollevato un nuovo polverone.

Anche se l’ideologia radical - laicista non guarda per il sottile ed ha fretta di introdurre nel nostro ordinamento l’eutanasia, bisognerebbe però avere il coraggio di riaffermare il valore in sé della vita umana, che giustifica gli interventi volti a salvaguardarla nell’esercizio della attività medico – chirurgica, in presenza di un dissenso del paziente non attuale e non coscientemente elaborato, nella attualità di una patologia; nell’ambito del rapporto medico – paziente e dell’alleanza terapeutica tra loro fiduciariamente stretta, fermo il diritto del malato di rifiutare le cure, dopo aver fatto tutto ciò che, dall’intreccio solidaristico tra la disponibilità, colma di umanità, del medico a curare, e quella del paziente a lasciarsi curare, escluso ogni accanimento, era risultato ragionevole, proporzionato e possibile per la terapia.

Il medico non può essere vincolato da eventuali dichiarazioni anticipate di trattamento, men che meno quando sia in gioco la vita di un malato al momento incapace di intendere e di volere, ed a decidere sia un soggetto diverso, sia pure in precedenza da lui designato.

La stessa Convenzione di Oviedo (Convenzione sui Diritti dell'Uomo e la biomedicina del 4 Aprile 1997) e l’attuale Codice di Deontologia Medica, in proposito, affermano che di eventuali dichiarazioni anticipate di trattamento il medico dovrà, semplicemente, “tenere conto”.

Colpisce, in questa nostra progredita società post-moderna, la straordinaria debolezza ed arrendevolezza di fronte alla morte ed alla sofferenza, il cui peso soprattutto psicologico (dietro il paravento, spesso labile, del consenso informato e del testamento biologico) si rischia di caricare integralmente sulle spalle dell’unico soggetto che, invece, dovrebbe esserne alleviato: il malato, privato, così, di ciò di cui più necessita: una vera solidarietà.

Più che di tanta ideologia e di tanto scientismo, è di questa, forse, che avremmo bisogno, come dimostrano le suore di Lecco che con sommessa discrezione in tutti questi anni hanno accudito Eluana Englaro.

Nei concreti rapporti umani la solidarietà, valore ritenuto fondante dalla Costituzione (art. 2), non è formalistica e, talora, neppure umanamente rispettosa né democratica.

Solo, si preoccupa gratuitamente del bene e delle sofferenze altrui, e vi partecipa.

La solidarietà, che accetta la malattia e la morte ma è sempre per la vita, è, infatti, una espressione dell’Amore.

giovedì 1 gennaio 2009

Elogio all’intelligenza dei politici














Sono all’esame in Commissione alla Camera i progetti di legge n. 1756 e n. 1658. Il primo ("Disciplina dei diritti e dei doveri di reciprocità dei conviventi"), proposto dal Popolo delle Libertà, relativo alle libere convivenze di fatto (non so se sia lo stesso a cui lavorano i ministri Brunetta e Rotondi); il secondo ("Reati commessi per finalità di discriminazione o di odio fondati sull'orientamento sessuale o sull'identità di genere") alla introduzione nel nostro ordinamento del reato di omofobia, per la repressione di condotte che possano determinare una discriminazione sulla base degli orientamenti sessuali e l’identità di genere.
Credevamo che fosse chiaro che il riconoscimento di specifici diritti alle persone conviventi di fatto in quanto tali, richiedendo, come suo inevitabile e preliminare passaggio, la definizione di che cosa si debba intendere per coppia di fatto, finiva per contenerne, per ineluttabile necessità logica, il riconoscimento.
Pensavamo altresì che si fosse compreso che il riconoscimento di una sia pur sui generis specificità delle coppie di fatto e di facoltà, prerogative e diritti legati e connessi alla relativa appartenenza avrebbe inevitabilmente finito per introdurne la disciplina nel nostro ordinamento, con parallelo indebolimento della famiglia.
Ci eravamo illusi che si fosse capito che, in realtà, i conviventi di fatto non necessitavano del riconoscimento di alcun diritto, essendo molte pretese già soddisfatte dall’ordinamento giuridico ed altre incompatibili con un rapporto che si svolge, per l'appunto, di fatto, in via del tutto privata e senza l’assunzione, con il matrimonio, di alcun formale e solenne obbligo nei confronti della collettività.
Ci pareva evidente che l’unica vera esigenza sottesa alla battaglia per i pacs, dico o come li si voglia chiamare era quella di legittimare il rapporto affettivo tra omosessuali e, in seconda istanza, il loro matrimonio.
Chi poteva immaginare che fosse, poi, ancora dubbio che un emendamento legislativo sulla cosiddetta omofobia, vale a dire sul pericolo di discriminare qualcuno per il suo orientamento sessuale o la sua identità di genere, avrebbe comportato il rischio di introdurre un vero e proprio reato di opinione, e che una tale norma avrebbe, guarda caso, spianato la strada proprio al matrimonio omosessuale?
Dopo il Family Day del 12 maggio 2007 avevamo ritenuto che oltre un milione e mezzo di persone in Piazza San Giovanni a Roma avessero reso chiaro come la pensasse, su questi temi, la maggioranza reale del popolo italiano; le famiglie italiane, quelle che, con i loro sacrifici quotidiani ed i loro figli, mandano avanti la carretta di questo scalcinato Paese.
Caduto il governo Prodi, infine, ci eravamo rasserenati ed avevamo tirato un sospiro di sollievo e creduto definitivamente tramontato il suo allucinante programma etico e bioetico.
Per un attimo ci siamo adagiati.
Ma l’illusione è finita.
Forse abbiamo capito perché il Ministro Brunetta aveva potuto ricevere l'invito al Festival del Diritto di Piacenza del settembre scorso ...