sabato 15 novembre 2008

Epitaffio - breve racconto in memoria di Eluana Englaro, presto defunta


Agnese pedalava, quando una fitta dolorosa lasciò subito il posto ad una sensazione di euforia mentre bagliori luminosi le attraversavano la mente.
Le immagini delle cose del mondo si sovrapposero e confusero fino a divenire un tutto indistinto e svanire in una luminosità vieppù intensa ed avvolgente nella quale, alla fine, Agnese si sentì sprofondare dolcemente, con voluttà e gioia crescente.

Dallo spazio diafano e luminoso in cui sedeva, lo sguardo di Agnese contemplava il proprio corpo giacere esanime tra le bianche coltri che l’accoglievano ormai da più di dieci anni, secondo la misura del tempo in uso nella vita mortale.
Contemplava di lontano, alte sopra di sé, le schiere di eletti che le parevano irradiare una sensazione di felicità immensa in cui lei stessa si sentiva in qualche modo coinvolta e partecipe, e ne sentiva l’eco lontana dei canti.
Di fronte alla beatitudine in cui si sentiva immersa, per il ricordo del fango e delle miserie della sua vita mortale, per nulla al mondo avrebbe voluto riprendere possesso di quel suo povero corpo su cui ora vedeva, laggiù sulla terra, le persone prodigarsi incessantemente.
E con lo sguardo accarezzava amorevole la canizie del padre ricurvo.
Lontano, sotto di lei, la luce trasparente come cristallo si dissolveva però in ombre cupe, che si perdevano nel vortice tetro ed oscuro della voragine su cui stava sospesa.

Quella mattina Venanzio Assenzio si era svegliato di buon umore ed il sentimento di smisurata stima di sé che nutriva fu rafforzato dai riflessi luminosi che i tiepidi raggi di sole dell’autunno romano disegnavano sui vetri della finestra del suo studio in Piazza Cavour.
L’acuto stridio del barroccio e le grida di un arrotino lo richiamarono alla finestra, sulla quale i riflessi luminosi delle acque del Tevere ed il calore policromo delle foglie secche strenuamente aggrappate ai rami degli storici platani, o ammucchiate sul selciato, lo colsero e lo stupirono come il suono maestoso e inatteso di un’improvvisa sinfonia barocca.
Niente poteva più scalfire la tenacia e la determinazione con la quale si apprestava ad affrontare il collegio della prima sezione civile della Suprema Corte di Cassazione, di cui era, quella mattina, relatore.
Così si avviò, toga sotto braccio, il passo scandito dall’eco del tocco secco e sferzante dei tacchi sul pavimento, minuscolo e nero sotto l’alto soffitto dei corridoi deserti.

Il papà di Agnese aveva dormito male e stava adesso seduto in un angolo oscuro dell’immensa sala d’udienza, lo sguardo alla volta affrescata, e rincorreva distratto gli echi attutiti, nell’aria maleodorante di muffa, del dibattito in corso.
Esausto in cuor suo, cercava di cogliere dai lineamenti dell’avvocato i presagi della sentenza del cui dispositivo si sarebbe di li a poco data lettura.
Il campanello squillò; con un prolungato cigolio il massiccio portale della camera di consiglio si socchiuse e la Corte fece il suo ingresso in aula.
Inforcati gli occhiali, la Presidente sventolò ruvidamente qualche foglio, sbirciò sopra le lenti ed iniziò a leggere.

Non capì bene perché ciò successe, ma d’un tratto, forse un secolo, forse un secondo, Agnese si sentì più libera e leggera.
Ed indifferente, mentre vedeva uomini in abito grigio saldare alla fiamma i bordi della capsula metallica della bara nella quale i rimasugli ossuti di ciò lei era stata in vita venivano ora costretti.
La sensazione di sospensione e di gioia di prima spariva, risucchiata da una nuova e crescente pesantezza in cui sentiva con stupore crescere dentro di sé un forte dolore morale, un senso inconsolabile di rimpianto ed il desiderio struggente di abbracciare Colui nei riflessi ineffabili della cui Luce aveva visto avvolte le schiere dai cui canti si sentiva ora perdutamente, anche se solo per un tempo, strappare, contro il suo volere ed il suo desiderio.

Il papà di Agnese gettò un ultimo sguardo alla lapide ed alla foto della figlia più e più volte contemplata in questi lunghi anni.

Quindi percorse lentamente il viale del Verano ingombro di foglie.

E se ne allontanò, senza più voltarsi indietro.