martedì 31 maggio 2011

Zapatero a Milano

Zapatero a Milano.

Mite nei tratti, mansueto il sorriso.

E, dentro, la violenza dell’ostentazione gay, la perversione dei genders, lo spappolamento della maschilità e l’annichilimento della famiglia, nella cruda intransigenza relativista.

Un vero regalo, di che rallegrarsi, per l’ala progressista e dossettiana della Chiesa ambrosiana.

Dietro il trionfo dell’estremismo di sinistra, velato da un volto dal sorriso mite, un popolo borghese che da vero incosciente si crogiola nell’indifferenza, se ne infischia dei valori, e la domenica del ballottaggio ha altro da fare, la gita la partita e che so altro, rischiando di trovarsi un domani forestiero in casa sua.

Quali politici per questo popolo?

Quale politica per questa gente?

Vince la mollezza feroce dell’anticristo di soloveviana memoria, colto, educato, tollerante.

Milano ed il suo Zapatero.

mercoledì 25 maggio 2011

Donne in cerca di marito


Sono molto preoccupato.

Sto subendo una grave involuzione culturale.

Ad essa si associa un patologico abbassamento dei freni inibitori.

Ho visto un mostro.

A seguito di perizia psicologica, il tribunale ha assolto due coniugi dalla accusa di pedofilia o di non so quale altro reato ai danni di un minore.

Il collegio giudicante, si legge nella cronaca cittadina, era interamente composto da donne.

Donne, che quando si incontrano nei corridoi parlano con dolce voce musicale di donna di cose presumo anche femminili, tipo l’arredo di casa le vacanze gli smalti la manicure e, che so, di figli e della loro cura; e un po’ di pettegolezzo.

Donne che vestono da donne, e sotto le camicette indossano pudici reggiseni sui seni che boccucce di neonati hanno stretto a suggere prezioso latte materno; donne che indossano aggraziate gonne, esibiscono polpacci torniti e caviglie fini.

Voglio dire donne con il corpo la voce le movenze e tutta intera la natura di donna, il cui seno ha allattato figli, il cui ventre li ha accolti nella gravidanza, le cui mani li hanno accarezzati coccolati vestiti e nutriti; donne con gli occhi belli di donna, e le belle maniere aggraziate delle donne.

Quelle che per natura accolgono, amano, educano, eppoi si mostrano, esibiscono complici le loro bellezze una volta, tanto tempo fa, per trovar marito e metter su famiglia.

Per avere il dono dei figli, la forza e la sicurezza di un marito.

Esibirsi per dominare con il potere o la carriera che viene dal ricatto sessuale e della bellezza fine a se stessa a che vale? A che serve il dominio se genera solitudine e non senso della vita?

Che dire, insomma, di donne, madri, sorelle, figlie, piene di spirito materno e di grazia femminile, che, come giudici, applicando la legge, con prerogativa affatto maschile hanno invece impersonato e dato voce, come bocche della giustizia, al diritto vivente, alla rigida norma, alla regola astratta?

Non me ne vogliano le donne giudice (quelle di quel collegio, tra l'altro, le conosco e le stimo). Loro non c'entrano, sto parlando di simboli.

Ma questo non è compito naturale e proprio dell’uomo, del maschio, del padre, che nella psiche del bambino ha proprio questa funzione, di dare le regole?

A vedere questo collegio tutto in rosa come si fa a non sorprendersi?

Mi pare fuori luogo, una aberrazione, una cosa mostruosa, come lo è, in sé, il matriarcato che questa testa femminea involontariamente evoca e simboleggia.

Donne leaders, donne che dominano; donne alla testa dell’uomo, che gli dettano le regole, e lo mettono simbolicamente sotto, in un ruolo che non è, per natura, il loro.

Si potranno mai, un giorno, rimettere le cose a posto?

Quando avremo ancora donne pudiche che occhieggiano civette per farsi guardare e prendere da uomini disposti ad inseguirle, corteggiarle, buttarsi ai loro piedi pur di impalmarle in quel matrimonio che suggella per sempre il desiderio di un amore eterno, quello stesso di Cristo per la sua Chiesa che Dio ha voluto racchiudere nella coppia umana, nell’uomo, creato nel corpo maschio e femmina?

Presto. Io spero presto.

E’ ora di riscattare la donna e la sua immagine deturpata dalla prigione di diritti e di falsa emancipazione in cui il demonio, con il femminismo, è riuscito a racchiuderla, distruggendo la famiglia e, in essa, il dono della vita e l’immagine buona di quel Padre severo ma tenero che è Dio.

mercoledì 18 maggio 2011

L'ometto ducetto




E’ piccolo e un po’ tarchiatello, la figura e l’impostazione ricordano vagamente quelle ducesche del famoso ventennio.
Nonostante gli anni, è anche pateticamente affetto da una forma gravemente narcisistica di priapismo dannunziano, un po’ decadente.
Si inventa slanci di bontà ai quali poi aderisce e crede, con l’astuzia di un serpente nascosta sotto la sua pur vera ingenuità di bambino. La stessa per la quale nelle foto ufficiali poteva mettere sorridendo le corna ai capi di stato.
Alieno alla politica, chi può essere così sciocco da farne un modello di vita?
Eppure, quest’ometto ha coraggiosamente messo la firma sotto un decreto, poi respinto dal Capo dello Stato, che avrebbe salvato non solo la vita a una giovane donna, Eluana, ma, contemporaneamente, anche il principio sacrosanto del valore e della inviolabilità della vita umana.
Questo ometto positivo e scherzoso e, sotto certi aspetti, un po’ patetico, forse non è riuscito ad introdurre nel sistema fiscale il principio del quoziente famigliare, né a destinare alle famiglie maggiori e concrete risorse economiche.
Però ci ha salvato da una deriva ideologica che un altro ometto, questo sì moralmente rigoroso e riservato ed anche dall’aspetto pontificale, non solo non avrebbe impedito ma che anzi si era proposto concretamente e programmaticamente di incentivare e sviluppare.
Contro la famiglia.
Dell’ometto – ducetto (nell’aspetto, ma non solo …) la gente un po’ puritana pare essersi un po’ stancata.
Forse.
Così alle amministrative di Milano un rifondarolo può sfiorare il cinquanta per cento dei consensi al primo turno.
Questo rifondarolo ha presentato un progetto per attribuire ai figli il cognome delle madri, dimostrando, così, di non aver capito nulla di famiglia, di ruoli, di educazione, di tradizione; non parliamo di cristianesimo (tanto a chi importa?...).
Lo confesso.
Personalmente, l’avrei votato, l’ometto – ducetto.
Per la prima volta in vita mia, l’avrei votato, perché mi aveva conquistato.
Le sue umiliazioni, il suo essere pubblicamente svergognato, forse anche l’apparente flop elettorale, me lo fanno preferire di gran lunga ai professori della politica, quelli che sembra sempre che la sappiano lunga.
Meglio un poveretto peccatore che ci salva dalle coppie di fatto, dal dilagare dell’omosessualità omologata, dall’io non lo faccio in casa mia ma gli altri devono poter fare quello che vogliono, dalla pietà che toglie di mezzo i pazienti incoscienti, dal sentimentalismo che accetta una immigrazione selvaggia, dal moralismo puritano di chi difende a spada tratta l’aborto, la fecondazione assistita anche eterologa, la criocongelazione degli embrioni in vitro.
Anche se è divorziato e mi sembra sotto tanti profili un poveretto, l’avrei votato, perché è lui che ha permesso che fino ad ora da tutto questo fossimo salvati.
Da adesso in avanti non so cosa succederà.
Gli italiani vogliono un bel professore morigerato e castigato?
L’avevano avuto, e per fortuna se n’è andato.
Forse lo riavranno.
Poi, però, non vengano a lamentarsi, parlo soprattutto ai cattolici, se la diga si romperà definitivamente e tutto quello da cui siamo stati fino ad oggi, in qualche modo, preservati, si realizzerà, magari tutto d’un colpo.
Come politologo non valgo un fico secco.
Però non ho resistito a dire quello che penso.

domenica 15 maggio 2011

A proposito della sottomissione nella ‘Mulieris dignitatem’ – affettuosa lettera aperta al Beato Karol Wojtyla

Carissimo Beato Karol,
ho riletto un passo della tua lettera apostolica ‘Mulieris dignitatem’, e devo dire che su un punto non sono proprio d’accordo con quanto tu scrivi.
O, meglio, credo che quello che tu dici meriti un commento, una precisazione.
Sono consapevole ed attonito della audacia suicida di una tale affermazione, ma credo di potermi rivolgere a te, che ci guardi affettuoso e benevolente dal cielo, accanto alla nostra comune Madre, Maria, come a un padre, con il quale, magari, discutere, per capire.
Esporrò, quindi, il mio pensiero, e sono sicuro che, alla fine, anche tu non potrai che essere d’accordo con me.
A metà circa del capitolo 24 della tua lettera apostolica ‘Mulieris dignitatem’ tu scrivi, parlando della sottomissione reciproca tra i coniugi nel matrimonio, che ‘il marito è detto “capo” della moglie come Cristo è capo della Chiesa, e lo è al fine di dare “se stesso per lei” (Ef. 5, 25) e dare se stesso per lei è dare perfino la propria vita’.
Detto questo, Beato Karol, tu così prosegui: “Ma, mentre nella relazione Cristo – Chiesa la sottomissione è solo della Chiesa, nella relazione marito - moglie la ‘sottomissione’ non è unilaterale, bensì reciproca!”.
Ecco, Beato Karol, padre dilettissimo, fratello maggiore nella fede e nello spirito, su questo non sono d’accordo, non mi ritrovo, mi manca qualcosa che la mia esperienza di fede mi ha insegnato ed inscritto nel profondo del mio essere.
Non sono d’accordo sul fatto che nel rapporto Cristo – Chiesa la sottomissione sia solo quella della Chiesa perché, se per il marito la sottomissione si realizza nel dare la vita per la propria moglie, questo Cristo lo ha fatto nella carne, nella sua vita terrena, ma continua concretamente a farlo anche ora, con differenti modalità, per la sua Sposa, la Chiesa, ed i suoi figli.
Quindi anche nelle nozze mistiche dell’Agnello con la Chiesa, la Nuova Gerusalemme, possiamo trovare la stessa reciprocità di sottomissione che troviamo nel matrimonio cristiano, con le differenti modalità che si convengono ai differenti ruoli, il marito rispetto alla moglie, Cristo rispetto alla Chiesa.
Per lei Cristo ancora si sottomette, dando la vita, cioè si fa l’ultimo, si lascia schiacciare ed uccidere per servire, così, la sua Sposa, perché dalla sua morte noi possiamo avere la vita.
Quando Cristo, attraverso la Chiesa, mi perdona, dopo che io l’ho tradito, insultato, magari bestemmiato, offeso nel suo corpo che è la Chiesa, non accetta, forse, ancora di farsi l’ultimo, di servire, di andare in croce perché dalla sua morte noi possiamo avere la vita? E non è questa morte con la quale io lo colpisco, nel suo corpo, nella creazione, nella sua opera (anche quella che sta compiendo in me) una morte vera, che Lui accetta di subire e vivere per me, per amore mio?
La sottomissione della Chiesa, casta meretrix, a Cristo è unilaterale ma, in un certo senso, anche bilaterale, perché postula quella di Cristo che da la vita per la Sua Sposa, la Chiesa, sacrificio immanente ed archetipico, per il quale io, peccatore, posso avere oggi, qui e adesso, la vita.
Guai se Cristo non continuasse, idealmente e simbolicamente ma anche sul piano pratico, dell’esperienza esistenziale, nei fatti della vita, Lui che è Dio, a farsi piccolo di fronte a me, a lasciarsi uccidere da me, dal mio peccato, affinché io, con il pentimento ed il suo perdono, scoprendo la bellezza ed immensità del suo amore e la sua innocenza, possa esserne un po’ per volta, con pazienza e misericordia, liberato, e così scoprire la bellezza di servirlo, rimettendomi, finalmente, alla sua volontà.
L’obbedienza a Cristo è certamente la meta finale della Chiesa, fatta di uomini e perciò peccatrice, e dei suoi figli, a loro volta peccatori, che Dio ha servito e costantemente serve per mezzo del sacrificio del Suo dilettissimo Figlio.
Nella mia vita concreta, nei fatti in cui essa si è sviluppata, ho potuto vedere concretamente realizzata questa Parola; ho potuto vedere prendere corpo l’opera di redenzione di Gesù Cristo che nella mia vita si è fatto piccolo pur di conquistarmi, a me che sono un niente, un nulla, una inezia esistenziale, uno dei miliardi e miliardi di uomini e donne che hanno attraversato la storia.
Quest’opera completa di redenzione, che avrà il suo compimento nella Vita Eterna, è, per me, ben simboleggiata nella Parola dell’Evangelista Giovanni, della lavanda dei piedi (Giov. 13, 4-15).
In essa troviamo Gesù che serve la sua chiesa, simboleggiata dagli apostoli, e, quindi, in un certo senso, che si sottomette a lei nel modo consono al marito, con riferimento al rapporto mistico tra Cristo e la Chiesa, e cioè dando la vita per lei, per me.
Del resto, non ha detto Gesù che “chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mt 20, 27-28)? E: “Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi … un servo non è più grande del suo padrone, né un inviato è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica” (Gv 13, 12-14)?
Allora credo che la sottomissione, come è reciproca, ma con modalità differenti in relazione ai loro differenti ruoli, nel rapporto tra il marito e la propria moglie, così lo è, lo deve essere, anche nel rapporto sponsale tra Cristo a la sua Chiesa, in particolare nei connotati che questo assume nel tempo, e negli sviluppi terreni della storia della salvezza.
E, del resto, non s'è detto che "La vita futura e quella matrimoniale appartengono strutturalmente alla medesima categoria ontologica, sono della stessa essenza" (P. Evdokimov, Il matrimonio sacramento dell'amore Magnano, 2008, 77 e ss.)?
E Cristo non si sottomette, cioè non dà concretamente la vita, quando si affida ai suoi piccoli per l’annuncio del kerygma? Non accetta di essere colpito nel suo corpo mistico, e nella sua opera, quando lascia che i suoi piccoli vengano dileggiati, colpiti, perseguitati e magari uccisi in forza dell’annuncio cristiano? Non è, questo, un perpetuarsi del sacrificio di Cristo e del suo servizio per la redenzione dell’uomo?
La reciproca sottomissione di cui tu ci parli, Beato Karol, si attua così, quindi, come per Cristo nei confronti della Chiesa, nel significato sponsale di tale rapporto, così per il marito rispetto alla moglie, con gli stessi caratteri ontologici, ma con modalità diverse in relazione alla distinzione dei rispettivi ruoli, capo e guida, come Cristo, per il marito, accoglienza materna e sostegno, come la Chiesa, per la moglie.
La moglie è infatti chiamata a vedere nel marito il capo, cioè la testa del corpo che è la famiglia, piccola Chiesa domestica, immagine di Dio riflessa e nello stesso tempo presente nel corpo, creato maschio e femmina; ed il marito, come Cristo, è chiamato a dare la vita per la propria moglie.
Sulla concreta declinazione di tali ruoli nella esperienza concreta del matrimonio cristiano e della famiglia sono straordinariamente belle ed efficaci le pagine di Edith Stein, nel suo libro ‘La donna’, al capitolo sulla vocazione dell’uomo e della donna secondo l’ordine della natura e della grazia, alla cui lettura senz’altro rinvìo.
Allora, caro Beato Karol che con gli occhi tuoi severi e benevoli ci guardi dal cielo e sorridi, cosa ne dici, sei d’accordo con me?
Il mio cuore mi dice di sì.