domenica 15 maggio 2011

A proposito della sottomissione nella ‘Mulieris dignitatem’ – affettuosa lettera aperta al Beato Karol Wojtyla

Carissimo Beato Karol,
ho riletto un passo della tua lettera apostolica ‘Mulieris dignitatem’, e devo dire che su un punto non sono proprio d’accordo con quanto tu scrivi.
O, meglio, credo che quello che tu dici meriti un commento, una precisazione.
Sono consapevole ed attonito della audacia suicida di una tale affermazione, ma credo di potermi rivolgere a te, che ci guardi affettuoso e benevolente dal cielo, accanto alla nostra comune Madre, Maria, come a un padre, con il quale, magari, discutere, per capire.
Esporrò, quindi, il mio pensiero, e sono sicuro che, alla fine, anche tu non potrai che essere d’accordo con me.
A metà circa del capitolo 24 della tua lettera apostolica ‘Mulieris dignitatem’ tu scrivi, parlando della sottomissione reciproca tra i coniugi nel matrimonio, che ‘il marito è detto “capo” della moglie come Cristo è capo della Chiesa, e lo è al fine di dare “se stesso per lei” (Ef. 5, 25) e dare se stesso per lei è dare perfino la propria vita’.
Detto questo, Beato Karol, tu così prosegui: “Ma, mentre nella relazione Cristo – Chiesa la sottomissione è solo della Chiesa, nella relazione marito - moglie la ‘sottomissione’ non è unilaterale, bensì reciproca!”.
Ecco, Beato Karol, padre dilettissimo, fratello maggiore nella fede e nello spirito, su questo non sono d’accordo, non mi ritrovo, mi manca qualcosa che la mia esperienza di fede mi ha insegnato ed inscritto nel profondo del mio essere.
Non sono d’accordo sul fatto che nel rapporto Cristo – Chiesa la sottomissione sia solo quella della Chiesa perché, se per il marito la sottomissione si realizza nel dare la vita per la propria moglie, questo Cristo lo ha fatto nella carne, nella sua vita terrena, ma continua concretamente a farlo anche ora, con differenti modalità, per la sua Sposa, la Chiesa, ed i suoi figli.
Quindi anche nelle nozze mistiche dell’Agnello con la Chiesa, la Nuova Gerusalemme, possiamo trovare la stessa reciprocità di sottomissione che troviamo nel matrimonio cristiano, con le differenti modalità che si convengono ai differenti ruoli, il marito rispetto alla moglie, Cristo rispetto alla Chiesa.
Per lei Cristo ancora si sottomette, dando la vita, cioè si fa l’ultimo, si lascia schiacciare ed uccidere per servire, così, la sua Sposa, perché dalla sua morte noi possiamo avere la vita.
Quando Cristo, attraverso la Chiesa, mi perdona, dopo che io l’ho tradito, insultato, magari bestemmiato, offeso nel suo corpo che è la Chiesa, non accetta, forse, ancora di farsi l’ultimo, di servire, di andare in croce perché dalla sua morte noi possiamo avere la vita? E non è questa morte con la quale io lo colpisco, nel suo corpo, nella creazione, nella sua opera (anche quella che sta compiendo in me) una morte vera, che Lui accetta di subire e vivere per me, per amore mio?
La sottomissione della Chiesa, casta meretrix, a Cristo è unilaterale ma, in un certo senso, anche bilaterale, perché postula quella di Cristo che da la vita per la Sua Sposa, la Chiesa, sacrificio immanente ed archetipico, per il quale io, peccatore, posso avere oggi, qui e adesso, la vita.
Guai se Cristo non continuasse, idealmente e simbolicamente ma anche sul piano pratico, dell’esperienza esistenziale, nei fatti della vita, Lui che è Dio, a farsi piccolo di fronte a me, a lasciarsi uccidere da me, dal mio peccato, affinché io, con il pentimento ed il suo perdono, scoprendo la bellezza ed immensità del suo amore e la sua innocenza, possa esserne un po’ per volta, con pazienza e misericordia, liberato, e così scoprire la bellezza di servirlo, rimettendomi, finalmente, alla sua volontà.
L’obbedienza a Cristo è certamente la meta finale della Chiesa, fatta di uomini e perciò peccatrice, e dei suoi figli, a loro volta peccatori, che Dio ha servito e costantemente serve per mezzo del sacrificio del Suo dilettissimo Figlio.
Nella mia vita concreta, nei fatti in cui essa si è sviluppata, ho potuto vedere concretamente realizzata questa Parola; ho potuto vedere prendere corpo l’opera di redenzione di Gesù Cristo che nella mia vita si è fatto piccolo pur di conquistarmi, a me che sono un niente, un nulla, una inezia esistenziale, uno dei miliardi e miliardi di uomini e donne che hanno attraversato la storia.
Quest’opera completa di redenzione, che avrà il suo compimento nella Vita Eterna, è, per me, ben simboleggiata nella Parola dell’Evangelista Giovanni, della lavanda dei piedi (Giov. 13, 4-15).
In essa troviamo Gesù che serve la sua chiesa, simboleggiata dagli apostoli, e, quindi, in un certo senso, che si sottomette a lei nel modo consono al marito, con riferimento al rapporto mistico tra Cristo e la Chiesa, e cioè dando la vita per lei, per me.
Del resto, non ha detto Gesù che “chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mt 20, 27-28)? E: “Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi … un servo non è più grande del suo padrone, né un inviato è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica” (Gv 13, 12-14)?
Allora credo che la sottomissione, come è reciproca, ma con modalità differenti in relazione ai loro differenti ruoli, nel rapporto tra il marito e la propria moglie, così lo è, lo deve essere, anche nel rapporto sponsale tra Cristo a la sua Chiesa, in particolare nei connotati che questo assume nel tempo, e negli sviluppi terreni della storia della salvezza.
E, del resto, non s'è detto che "La vita futura e quella matrimoniale appartengono strutturalmente alla medesima categoria ontologica, sono della stessa essenza" (P. Evdokimov, Il matrimonio sacramento dell'amore Magnano, 2008, 77 e ss.)?
E Cristo non si sottomette, cioè non dà concretamente la vita, quando si affida ai suoi piccoli per l’annuncio del kerygma? Non accetta di essere colpito nel suo corpo mistico, e nella sua opera, quando lascia che i suoi piccoli vengano dileggiati, colpiti, perseguitati e magari uccisi in forza dell’annuncio cristiano? Non è, questo, un perpetuarsi del sacrificio di Cristo e del suo servizio per la redenzione dell’uomo?
La reciproca sottomissione di cui tu ci parli, Beato Karol, si attua così, quindi, come per Cristo nei confronti della Chiesa, nel significato sponsale di tale rapporto, così per il marito rispetto alla moglie, con gli stessi caratteri ontologici, ma con modalità diverse in relazione alla distinzione dei rispettivi ruoli, capo e guida, come Cristo, per il marito, accoglienza materna e sostegno, come la Chiesa, per la moglie.
La moglie è infatti chiamata a vedere nel marito il capo, cioè la testa del corpo che è la famiglia, piccola Chiesa domestica, immagine di Dio riflessa e nello stesso tempo presente nel corpo, creato maschio e femmina; ed il marito, come Cristo, è chiamato a dare la vita per la propria moglie.
Sulla concreta declinazione di tali ruoli nella esperienza concreta del matrimonio cristiano e della famiglia sono straordinariamente belle ed efficaci le pagine di Edith Stein, nel suo libro ‘La donna’, al capitolo sulla vocazione dell’uomo e della donna secondo l’ordine della natura e della grazia, alla cui lettura senz’altro rinvìo.
Allora, caro Beato Karol che con gli occhi tuoi severi e benevoli ci guardi dal cielo e sorridi, cosa ne dici, sei d’accordo con me?
Il mio cuore mi dice di sì.

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