Ho
letto con attenzione l’articolo-intervista pubblicato su Il Nuovo Giornale di
venerdì 25 ottobre scorso sulla proposta di istituzione, presso il Comune di
Piacenza, di un registro delle unioni civili.
Sull’argomento,
il Direttivo locale dell’Unione Giuristi Cattolici ha già approvato e diffuso
un comunicato stampa, che, in sintesi, definisce l’iniziativa di alcuni
consiglieri di maggioranza forzata ed arbitraria, inutile, se non come
propaganda ideologica, e contro la famiglia, quella fondata sul matrimonio,
l’unica riconosciuta dalla Costituzione.
L’articolo
in questione, che in alcuni passaggi merita alcuni chiarimenti, sembra avvalorare
tale giudizio.
Innanzitutto
pare opportuno chiarire che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 138 del
2010, dichiarando, con argomenti talora discutibili, infondate o inammissibili
le questioni poste con i ricorsi, ha principalmente escluso l’assimilabilità
delle unioni omosessuali alla famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo ed una
donna.
La
Corte di Cassazione, dal canto suo, sulla scorta della predetta decisione della
Consulta, con sentenza n. 4184 del 2012 in una causa che si occupava della richiesta
di trascrizione, in Italia, di un matrimonio omosessuale contratto all’estero, respingendo
la domanda (sia pure con passaggi argomentativi pure discutibili), ha confermato
che non esiste il diritto ad una estensione diretta e tout cour alle unioni omosessuali del trattamento assicurato dalla
legge alle coppie coniugate, e che tale –eventuale- estensione deve invece
passare, con riguardo a specifiche situazioni, attraverso il vaglio giudiziale (come
p. es. è avvenuto per la automatica successione del convivente more uxorio nel contratto locativo).
I
virgolettati riportati nell’articolo riguardano, quindi, semplici passaggi
argomentativi e supporto di tali conclusioni, e non costituiscono l’oggetto principale
delle decisioni citate.
Tornando
alla proposta di istituzione del registro delle unione civili, la stessa dovrebbe,
nelle intenzioni dei proponenti così come rappresentate dal consigliere Curtoni,
facilitare l’accesso delle unioni civili a determinati servizi comunali anche
se, a quanto si legge, “si tratta di
possibilità di per sé già a disposizione delle coppie di fatto (dall’assegnazione
delle case popolari all’accesso agli asili nido per i bambini al riconoscimento
del parente prossimo per i servizi sociali)”.
Si
ha, così, la conferma che nel nostro Comune le unioni di fatto sono, ci si
scusi il bisticcio, di fatto, già in concorrenza con le famiglie regolari
quanto all’accesso ad alcuni importanti servizi comunali. Se, in aggiunta, si
considera, tra le tante, l’ingiustizia degli svantaggi fiscali e tariffari che
già scontano le famiglie regolari, in particolare numerose, rispetto alle
convivenze di fatto, ne risulta che, anche in questo caso, è la famiglia ad
essere ingiustamente discriminata, come da tempo affermano, dati alla mano, il
Forum Famiglie e la Associazione Nazionale Famiglie Numerose, e come bene hanno
ricordato i consiglieri comunali Negri e Botti.
L’eventuale
istituzione del registro delle unioni civili avrebbe, quindi, semplicemente l’ effetto
di potenziare tale ingiusta ed indebita concorrenza.
Modo,
questo, ben curioso di sostenere la famiglia tradizionale, secondo l’intento
dichiarato dal consigliere Curtoni, a parere del quale, riprendendo il famoso
dialogo tra il Card. Martini ed Ignazio Marino (pubblicato dall’editore Einaudi
in un volumetto che reca, come eloquente sottotitolo, il seguente: “la chiusura aprioristica della Chiesa e
delle religioni, di fronte agli inevitabili cambiamenti legati al progresso
della scienza e della tecnica, non è mai stata di grande utilità”),
‘riconoscere le unioni civili è solo favorire le prospettive di stabilità a chi lo desidera’.
Ben
pochi, a giudicare dal flop dei registri delle unioni civili, ovunque
istituiti.
L’affermazione
è, tuttavia, sorprendente se si considera che, oramai, viviamo in un contesto
sociale nel quale la stabilità della coppia non è più garantita neppure nel
matrimonio, nel quale la stessa pur si fonda su promesse solenni ed un impegno
assunto pubblicamente alla fedeltà, alla coabitazione, alla mutua assistenza
tra i coniugi.
Neppure
le onerose conseguenze patrimoniali che vi sono connesse impediscono, infatti,
che il matrimonio sia squassato da ormai frequentissime separazioni e da divorzi,
in una prassi giudiziaria che assomiglia sempre più ad una presa d’atto
notarile della volontà dei coniugi in crisi, benché il diritto di famiglia, per
il rilevante interesse pubblico che coinvolge, non sia materia disponibile per
le parti.
Pensare,
quindi, che in questo contesto l’intervento pubblico (o l’istituzione di un registro
comunale) possa favorire la stabilità della vita di coppia di conviventi more uxorio, legati tra loro solo
affettivamente e per definizione refrattari ad assumere, in tale veste,
impegni, pare quindi quanto meno ingenuo, e certamente contraddittorio e velleitario.
A maggior ragione se si consideri che gli affetti ed i sentimenti, sui quali
-soli- si basano le convivenze di fatto, sono materia vaga e soggettiva,
inafferrabile, e, come tale, irrilevante per il diritto, essendo incompatibile
con la certezza che lo deve contraddistinguere.
E’,
poi, ingenuamente erroneo ed illusorio pensare che la famiglia sia una cosa, e
le unioni civili un’altra, che non interferisce con la prima.
Al
di là delle intenzioni di chi lo propone, infatti, il riconoscimento delle
unioni civili sarebbe un fatto tutt’altro che neutro per la famiglia, contro la
quale comporterebbe un attacco diretto per la introduzione –di fatto- di un
nuovo istituto, para-famigliare e para-matrimoniale, inevitabilmente in
concorrenza con la stessa, nonostante l’assenza degli elementi di interesse
pubblico che ne contraddistinguono e ne giustificano il fondamentale rilievo per
la società.
Circostanza
particolarmente evidente nel caso delle unioni omosessuali, per loro natura
sterili ed inidonee a surrogare le funzioni educative della famiglia, le cui
lobby a tale riconoscimento ambiscono nel tentativo di legittimare, come
normale, una pratica della sessualità che pur tuttavia, a partire da Freud,
Jung, Lacan, per arrivare ai moderni Anatrella, Nicolosi, ed altri valenti
studiosi, rimane invece discussa e problematica, e sovvertire, così, la tradizionale
visione, naturalistica, della antropologia umana, che è alla base del nostro
ordinamento giuridico.
Su
tali premesse, non si può, quindi, che aderire integralmente alla posizione
della CEI, opportunamente citata in chiusura dell’articolo in commento, che (pare
utile ripeterlo) ritiene la legalizzazione delle coppie di fatto “inaccettabile sul piano di principio, pericolosa
sul piano sociale ed educativo”. Secondo la Conferenza Episcopale, “quale che sia l’intenzione di chi propone
questa scelta, l’effetto sarebbe inevitabilmente deleteria per la famiglia. Si
toglierebbe, infatti, al patto matrimoniale la sua unicità, che sola giustifica
i diritti che sono propri dei coniugi e che appartengono soltanto a loro” mentre “un problema ancor più grave sarebbe rappresentato dalla legalizzazione
delle unioni di persone dello stesso sesso, perché, in questo caso, si
negherebbe la differenza sessuale, che è insuperabile”.
Argomenti,
come si vede, del tutto ragionevoli e non confessionali, aderenti ad una visione
che nella legge di natura e nel diritto naturale trova una sicura guida ed
oggettivi parametri di giudizio.
Appare,
quindi, ancor più auspicabile che avverso l’istituzione del paventato registro,
le cui ragioni appaiono ancor più fragili, contraddittorie ed inconsistenti di
quanto si potesse pensare, si coalizzi, a maggior ragione, una forte
opposizione trasversale di laici e cattolici, di credenti e non credenti, per
una società realmente a misura d’uomo e rispettosa della sua dignità.
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