domenica 11 gennaio 2009

La paura della società post-moderna: di essere solidale


Se, uscendo di casa, mi imbattessi nel mio vicino nell’atto di togliersi la vita, credo che farei di tutto per impedirglielo, anche con la forza, presumo, ed anche se, in quel momento, avessi la perfetta consapevolezza di andare contro la attuale volontà del tentato suicida.

Compirei, quindi, una violenza per la quale mi chiedo se io sarei meritevole di pena.

Se, da medico, mi trovassi invece nella necessità di eseguire trasfusioni di sangue ad un paziente che, avendone vitale ed urgente necessità, tuttavia le rifiutasse per le proprie convinzioni religiose, sarei, del pari, punibile se, nonostante il dissenso del paziente, magari espresso in chiare ed inequivoche dichiarazioni anticipate di trattamento (cioè nel suo, cosiddetto, “testamento biologico”), procedessi ugualmente in scienza e coscienza all’esecuzione della terapia, salvandogli così la vita?

Ciascuno può dare la sua risposta, confrontandola poi con quella del nostro ordinamento giuridico.

Che alla prima domanda dovrebbe, verosimilmente, rispondere di no, che per i reati a cui potrebbe corrispondere la mia condotta non sono punibile, avendo agito in stato di necessità e, in parole povere, per salvare la vita del mio vicino.

Alla seconda domanda è invece la Corte di Cassazione ad avere, di recente, risposto no, invero arrampicandosi un po’ sui vetri.

I giudici della Suprema Corte, infatti, hanno argomentato la loro decisione sulla base di una non attualità del dissenso del testimone di Geova (tale era, infatti, il paziente in questione), espresso quando non vi era alcun pericolo di vita, sicché, secondo i giudici, doveva presumersi che il malato avrebbe cambiato opinione e prestato il consenso se fosse stato realmente consapevole del rischio del sacrificio della vita che effettivamente correva.

Una finzione, quindi, un espediente dialettico (come quello, di segno opposto, utilizzato dai giudici del caso Englaro) per aggirare l’intricato nodo del consenso informato e della vincolatività, per il medico, delle dichiarazione anticipate di trattamento, sulle quali l’asse trasversale laicista - radicale, sfruttando la dolorosa vicenda degli Englaro, dopo il caso Welby, ha di recente sollevato un nuovo polverone.

Anche se l’ideologia radical - laicista non guarda per il sottile ed ha fretta di introdurre nel nostro ordinamento l’eutanasia, bisognerebbe però avere il coraggio di riaffermare il valore in sé della vita umana, che giustifica gli interventi volti a salvaguardarla nell’esercizio della attività medico – chirurgica, in presenza di un dissenso del paziente non attuale e non coscientemente elaborato, nella attualità di una patologia; nell’ambito del rapporto medico – paziente e dell’alleanza terapeutica tra loro fiduciariamente stretta, fermo il diritto del malato di rifiutare le cure, dopo aver fatto tutto ciò che, dall’intreccio solidaristico tra la disponibilità, colma di umanità, del medico a curare, e quella del paziente a lasciarsi curare, escluso ogni accanimento, era risultato ragionevole, proporzionato e possibile per la terapia.

Il medico non può essere vincolato da eventuali dichiarazioni anticipate di trattamento, men che meno quando sia in gioco la vita di un malato al momento incapace di intendere e di volere, ed a decidere sia un soggetto diverso, sia pure in precedenza da lui designato.

La stessa Convenzione di Oviedo (Convenzione sui Diritti dell'Uomo e la biomedicina del 4 Aprile 1997) e l’attuale Codice di Deontologia Medica, in proposito, affermano che di eventuali dichiarazioni anticipate di trattamento il medico dovrà, semplicemente, “tenere conto”.

Colpisce, in questa nostra progredita società post-moderna, la straordinaria debolezza ed arrendevolezza di fronte alla morte ed alla sofferenza, il cui peso soprattutto psicologico (dietro il paravento, spesso labile, del consenso informato e del testamento biologico) si rischia di caricare integralmente sulle spalle dell’unico soggetto che, invece, dovrebbe esserne alleviato: il malato, privato, così, di ciò di cui più necessita: una vera solidarietà.

Più che di tanta ideologia e di tanto scientismo, è di questa, forse, che avremmo bisogno, come dimostrano le suore di Lecco che con sommessa discrezione in tutti questi anni hanno accudito Eluana Englaro.

Nei concreti rapporti umani la solidarietà, valore ritenuto fondante dalla Costituzione (art. 2), non è formalistica e, talora, neppure umanamente rispettosa né democratica.

Solo, si preoccupa gratuitamente del bene e delle sofferenze altrui, e vi partecipa.

La solidarietà, che accetta la malattia e la morte ma è sempre per la vita, è, infatti, una espressione dell’Amore.

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